Lotta al terrore
Comuni in bolletta

Parafrasando Winston Churchill, la guerra al terrorismo è un problema troppo serio per lasciarla fare ai generali. E infatti in Italia insieme con l’esercito, i carabinieri, la polizia e gli apparati di sicurezza vengono coinvolti anche altri attori delle istituzioni: prefetti, sindaci, polizia locale, magistrati, amministratori pubblici. Ma la catena è ancora più lunga e arriva, in linea teorica, all’impegno e alla volontà di ogni cittadino chiamato a collaborare, all’occorrenza. Il problema è che in questa catena di attori ce n’è uno, il primo cittadino, che sembra ormai delegato a occuparsi di qualunque cosa e a portare su di sé, come un Atlante dell’organizzazione pubblica, insieme con tante altre cose, il peso della lotta mondiale al terrorismo islamico.

I sindaci delle città italiane infatti, dopo il devastante attentato di Barcellona lungo le Ramblas sono stati invitati per esempio a monitorare e a innalzare«i livelli di attenzione», in occasione di manifestazioni pubbliche il cui numero per tutti i Comuni d’Italia come tutti sanno - è particolarmente ricco nell’ultimo scorcio dell’estate: dalla sagra del fungo porcino a una regata sul lago. Non solo, ma i Comuni devono agire anche in piazze e vie dove si registra una notevole affluenza di uomini, donne e bambini, mettendo in atto misure di vigilanza e prevenzione. Un circolare del ministero degli Interni parla anche di «prefiltraggio» delle persone, ovvero di controllo preventivi dei «tipi sospetti», come se i vigili urbani possedessero la palla di vetro e non fossero già abbastanza impegnati a controllare il traffico, a presidiare il territorio e a prevenire il più possibile incidenti stradali.

Si chiede poi di chiudere l’accesso ai veicoli nelle aree pedonali, per evitare quel che è successo a Nizza, a Berlino e a Barcellona. Abbiamo già visto che in molti Comuni si è proceduto a chiudere le zone con i «dissuasori», solitamente i cosiddetti «new jersey» di cemento, al fine di prevenire «raid» terroristici di furgoni o altri mezzi che provocano stragi investendo i passanti ad alta velocità. Naturalmente la presenza di questi blocchi di cemento, oltre a quella di proteggere la folla, ha anche la funzione di rassicurare i cittadini. Il problema che sistemare una serie di dissuasori nelle aree a rischio della città ha un costo. Da dove attingere le risorse se i Comuni sono già in bolletta?

Per garantire la sicurezza infatti è necessario mettere in campo uomini e mezzi, a meno di non accontentarsi delle rassicurazioni pubbliche, come quella del sindaco di Venezia («se vediamo un terrorista che grida Allah Akbar sul ponte di Rialto ghe sparemo», ha promesso).

Uomini e mezzi che i Comuni non hanno. Gli uomini della polizia locale sono già impiegati abbondantemente, con stressanti turni di lavoro, poiché le varie manovre e i vari patti di stabilità degli anni scorsi imposti dal Governo centrale ai Comuni hanno ristretto sempre di più i bilanci oppure non hanno dato alle giunte virtuose la possibilità di utilizzarli.

Vi sono poi le difficoltà pratiche: come è possibile «blindare» per intero un evento? O lo si cancella del tutto oppure il rischio è sempre presente. Non si può fare la sicurezza con i fichi secchi. Servirebbe personale per vigilare su tutti i punti sensibili delle città, che sono tanti. Al Sud, per liberare la polizia dalle funzioni di pattugliamento e dirigerla su funzioni investigative contro la mafia all’indomani delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, venne impiegato l’esercito con l’operazione Vespri Siciliani.

Ed ecco così spiegate le polemiche a distanza di questi giorni tra numerosi enti locali e le prefetture, l’occhio e il braccio del Governo sul territorio. Un rapporto sempre più incrinato, che si spiega con un pericolosissimo gioco a scaricabarile tra gli attori della sicurezza nazionale in Italia. Chi coordina la nostra sicurezza, a cominciare dal Viminale, dovrebbe tenerne maggiormente conto, invece di manganellare e innaffiare con gli idranti i profughi e i richiedenti asilo.

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