Moniti della Bce
ma il Pil è a zero

Ad otto anni di distanza da quei primi giorni di agosto in cui fu spedita all’Italia la lettera-ultimatum della Bce, a firma del governatore di allora, il francese Trichet, e di quello subentrante, Mario Draghi, è interessante, cinque governi dopo, andare a rileggerla per vedere cosa è stato fatto, e cosa no. Allora, quel diktat (si arrivò addirittura ad elencare le norme da approvare per decreto) ebbe conseguenze politiche formidabili: lo spread schizzò a 500 e il governo Berlusconi, pur frutto diretto del voto e dotato di larga maggioranza, cadde rovinosamente e lasciò spazio a Mario Monti, poi demonizzato ma in quel momento benemerito.

Ma i problemi strutturali sono rimasti. Basti dire che le prime righe di quella lettera invocavano politiche di crescita, indicando uno strumento preciso, l’aumento della concorrenza e in particolare la liberalizzazione dei servizi pubblici. Argomento del tutto trascurato dal permanente corporativismo, mentre la crescita è oggi inchiodata allo zero virgola zero, anche in questo secondo «bellissimo» semestre 2019, e per di più salgono sia la spesa che le tasse.

Il secondo punto riguardava la riforma della contrattazione collettiva, portando verso il basso, a livello aziendale, gli accordi da stipulare. Le parti sociali hanno fatto oggettivamente molto, ma oggi il dibattito - sballottato tra Palazzo Chigi e Viminale - è sui costi elevati del cosiddetto salario minimo, che rischia di svuotare proprio il valore delle intese contrattuali.

Più successo ha avuto il terzo punto, che riguardava la necessità di riformare il mercato del lavoro, applicato alcuni anni dopo dal jobs act con i contratti a tutela crescente, superando in particolare il nodo ideologico dell’articolo 18, ma oggi anche qui ci sono passi indietro, per le nuove rigidità introdotte dal decreto dignità e soprattutto per le contraddizioni del reddito di cittadinanza (rdc), che non ha prodotto nuove assunzioni (salvo che per i navigator), ma ha aperto un conflitto tra i livelli retributivi di milioni di lavoratori regolari e quelli teoricamente previsti dal rdc.

Altro punto della lettera che ha trovato attuazione è quello relativo alla obbligatorietà automatica dei tagli in caso di spese non coperte. È la clausola Iva che tutti i governi hanno poi mantenuto, ma che nel frattempo è gradualmente cresciuta, diventando pesantissima (23 miliardi già nel 2020), minacciando la stessa autonomia delle manovre, salvo nuova spesa in deficit, come nel 2019, difficilmente ripetibile per il futuro, vista la nuova Commissione Ue e il mezzo isolamento italiano.

Quanto alla spesa pensionistica, le indicazioni della lettera Bce sono state addirittura superate dalla riforma Fornero, che ha osato rivedere l’età pensionabile, ancorandola ad un dato oggettivo, l’aumento della speranza di vita, secondo una tempistica certamente scomoda per chi era più vicino alla quiescenza, ma avvertendo per tempo le generazioni più giovani. È ancora oggi l’unica riforma di reale austerità (l’unica, ripetiamo) con rilevanti effetti di contenimento sul bilancio, e infatti la simbolica introduzione della cosiddetta quota 100 non incide più di tanto sulla sostanza di quel cambiamento, votato allora dal 96% del Parlamento.

Altre richieste della lettera Bce sono poi state accolte dai successivi governi politici, come la riforma Delrio, che ha lasciato piene di buche le strade provinciali e pericolanti molte scuole, ma ha demagogicamente tagliato, per un valore di 36 centesimi procapite per ogni italiano, gli emolumenti di politici non più elettivi e messi a lavorare gratuitamente per fingere un provvedimento anti casta.

A otto anni di distanza, la lettera che allora terremotò la politica senza suscitare reazioni di contrasto (pensate alle invettive anche personali di questi mesi tra Roma e Bruxelles), si dimostra non così draconiana come sembrò allora. Anche quel poco è stato comunque in gran parte disatteso o cancellato, perché far risalire il Pil da meno 2/meno 3 fino al +1,7 del 2017 ha rimesso in discussione quanto fatto per riuscirci. Invece di insistere in nome degli interessi generali, si sta tornando indietro in nome di quelli elettorali. E il Pil è a zero.

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