Priorità fermare
l’Islam radicale

La coincidenza quasi perfetta tra l’attentato con cui un certo Rahman Akilov, richiedente asilo in attesa di espulsione, ha ucciso quattro persone in Svezia investendole con un camion, e la strage rivendicata dall’Isis in cui due attentatori kamikaze hanno ucciso decine di cristiani in due chiese dell’Egitto dovrebbe almeno aiutarci, nella sua tragica plasticità, a capire bene di che cosa parliamo quando parliamo del terrorismo di questi anni, si voglia o no aggiungere l’aggettivo

«islamico». A Stoccolma, come prima a Londra, a Berlino, a Nizza e in molti altri luoghi dell’Occidente, ha colpito uno dei cosiddetti «lupi solitari». Definizione da prendere con le molle, per ragioni divergenti quando non addirittura conflittuali. Da un lato, questi lupi proprio solitari non sono quasi mai, dietro di loro c’è un reticolo di altri fanatici, predicatori esaltati e propugnatori di violenza che contribuisce non poco a scatenarli. Però non c‘è nessun vero capo o stratega, perché gli ordini di servizio questi assassini li trovano in rete, nei siti o sulle riviste collegate al jihadismo. D’altra parte, una recente ricerca Europol ci ha detto che il 35% dei terroristi di questo tipo finora individuati manifestava chiari segni di squilibrio mentale.

Tutt’altro quadro in Egitto o nel Medio Oriente in generale, dove il terrore è meditato, organizzato, strutturato, pianificato con cura. Dove operano gruppi con impostazione almeno paramilitare, cellule per l’arruolamento dei kamikaze, uffici di propaganda del radicalismo. Dove, insomma, lo stragismo è una professione. Non è un caso, quindi, se il jihadismo e il terrorismo che a esso s’ispira colpiscono soprattutto i musulmani. Il National Consortium for the Study od Terrorism, un centro studi creato insieme da università e Governo Usa e ospitato dall’Università del Maryland, notava che negli anni 2000-2013 il 60% delle vittime del terrorismo si era avuto in tre soli Paesi: Iraq, Afghanistan e Pakistan. E nel 2011 il Centro nazionale di antiterrorismo degli Usa già rilevava che nei cinque anni precedenti erano musulmane tra l’82 e il 97% delle vittime del terrorismo.

Queste constatazioni dovrebbero farci realizzare una volta per sempre che non c’è un progetto jihadista contro l’Europa o contro l’Occidente mentre c’è un progetto jihadista, anzi, un super progetto jihadista, finanziato con una profusione di miliardi, per mettere sotto tutela non tanto e non solo il Medio Oriente ma l’islam mondiale. Se ci fosse uno «scontro di civiltà», l’aggressione nei nostri confronti non sarebbe portata con questa piccola schiera di squilibrati assassini, ma con ben altri mezzi. Gli stessi impiegati nel vicino Oriente e in Asia, dove centinaia di migliaia di uomini sono stipendiati per uccidere, per immolarsi, per diffondere il verbo dell’islam radicale ai danni dell’islam mondiale.

Accettare questa realtà cambia l’intera prospettiva con cui guardare al terrorismo e, soprattutto, modifica in modo radicale le strategie per affrontarlo. L’ondata dei «lupi solitari» si affronta con i mezzi delle forze di polizia e con le tecniche di prevenzione dell’intelligence, che peraltro hanno dato buoni frutti quasi ovunque, da Londra (dove una dozzina di attentatori è stata bloccata prima del colpo messo a segno a Westminster) a Venezia. Il progetto anti-islamico dell’islam radicale può invece essere bloccato solo con la politica. E cioè fermando con un nuovo patto politico internazionale i Paesi che lo ispirano e lo finanziano. Paesi che come tutti sanno sono le petromonarchie del Golfo Persico. Non si creda che ciò che accade in Medio Oriente ci tocchi meno di quanto accade a Londra, Venezia o Stoccolma. Nel 2050, ci avvertono i demografi, per la prima volta nella storia il numero dei musulmani nel mondo sarà pari o superiore a quello dei cristiani. Sarebbe una follia permettere che, da qui ad allora, l’islam internazionale venga radicalizzato a colpi di bombe e di agguati e le minoranze, come i cristiani d’Egitto, Siria e Iraq, spazzate via dallo stragismo organizzato.

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