Redditi pubblici
I guasti sono altri

Un’amministrazione pubblica di «pochi e ben pagati» era l’obiettivo di Francesco Saverio Nitti. Un ideale al quale il sistema pubblico, nell’arco di oltre un secolo, non è riuscito nemmeno ad accostarsi. La questione torna di attualità in presenza del primo rapporto dell’Osservatorio sui conti pubblici, redatto sotto la direzione di Carlo Cottarelli. Di lui non si può che avere stima, tanto per il suo percorso professionale, quanto per il generoso tentativo - compiuto quando era commissario per la spending review nel governo Letta- di razionalizzare le spese delle amministrazioni.

Il rapporto mette in rilievo che le retribuzioni nel settore pubblico sono mediamente del 18% superiori a quelle del privato. Una di quelle conclusioni destinate a far rumore e a rafforzare il luogo comune che l’amministrazione pubblica è un luogo di privilegiati. Ma si tratta di una conclusione fuorviante per due motivi: il raffronto non spiega alcunché, perché condotto su una media aritmetica riferita a un insieme di milioni di persone, quindi priva di consistenza interpretativa; perché è improprio ragionare di retribuzioni tra sistema pubblico e privato come se esse fossero il parametro per misurarne l’efficienza. Semplicemente esse non sono paragonabili, poiché la retribuzione di un altissimo funzionario (ad esempio, il capo della Polizia o il ragioniere generale dello Stato) dovrebbe essere ancora più elevata, in ragione dei livelli di responsabilità nei riguardi della collettività. Non altrettanto può dirsi degli emolumenti di un alto dirigente d’azienda le finalità della quale sono il profitto e non il bene comune.

I guasti del sistema pubblico sono altri. In primo luogo, le retribuzioni non legate al merito, l’irrazionale distribuzione del personale; la carente responsabilizzazione. A generare queste tre lacune hanno pesantemente contribuito i sindacati. Ma la responsabilità più grave, nel dissesto del sistema pubblico, è in capo al ceto politico. Gli errori compiuti sono stati marchiani. Le amministrazioni, fino agli anni Ottanta, sono state gonfiate di personale per mere esigenze di consenso elettorale. A questa piaga si è creduto di trovare rimedio con la privatizzazione della dirigenza. La pezza si è rivelata peggiore del buco. Non soltanto non sono migliorati i servizi, ma è enormemente cresciuta la giungla dei dirigenti, spesso nominati tra gli esterni all’amministrazione, in base a criteri di affiliazione politico/partitica. E qui emerge la povertà (etica e culturale, si intende) di gran parte del ceto politico nostrano degli ultimi tre decenni che ha consegnato al Paese una bancarotta morale senza precedenti. La crisi economica mondiale - figlia, non per caso, della sciagurata leggenda del mercato, produttore di benessere diffuso e di opportunità per tutti - ha contribuito potentemente a incancrenire una situazione già zoppicante. A retribuzioni stratosferiche dei vertici delle imprese (private e in mano pubblica) e stipendi degli alti dirigenti del settore pubblico non correlati a responsabilità e risultati, si contrappongono livelli retributivi sempre più risicati nelle sfere medio basse tanto nell’ambito pubblico quanto in quello privato. Divari sempre più marcati che sono la fotografia di un Paese che si dibatte nella curva discendente di un Welfare State progressivamente messo in soffitta. Le rovinose ricette neoliberiste di matrice reaganiana e tatcheriana hanno trovato negli anni recenti epigoni sprovveduti, anche tra le file dei governanti che dicevano di farsi interpreti delle esigenze dei ceti meno fortunati. Gli esiti sono davanti agli occhi di tutti. E le possibili vie d’uscita sono a tutt’oggi nebulose e incerte. Sarebbe necessaria una radicale inversione di tendenza, che avesse come fulcro i valori della solidarietà, dell’equità e del rispetto del lavoro come fonte di vita e non come ragione unica dell’esistenza. Valori che non mettano il successo ad ogni costo e il denaro al primo posto. Utopie, forse. Ma meno dannose dei luoghi comuni di un mercantilismo senza etica.

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