Roma, Milano
e la politica italiana

Gli schieramenti tradizionali della Seconda Repubblica stanno affrontando la questione delle candidature per le amministrative tra mille difficoltà, contraddizioni, ripicche e colpi bassi. E il caos è tale, da una parte e dall’altra, da far pensare che siamo davvero alla vigilia di un terremoto che potrebbe dare il colpo finale alla cosiddetta Seconda Repubblica e aprire un nuovo capitolo in questa mai risolta transizione italiana. Ma non dappertutto accadono le stesse cose. Ci sono sensibili differenze: basta mettere a confronto Roma con Milano. Vediamo.

Cominciamo da Roma. Che il marciume nella capitale sia arrivato a livelli di esondazione del Tevere non lo dicono solo gli irriducibili anti-romani, ma è scritto nelle pagine dell’inchiesta di Mafia Capitale o nel rapporto di Cantone sugli appalti del Campidoglio. La società civile romana è a pezzi, la città è impoverita e incattivita, le persone migliori si guardano bene dal farsi coinvolgere nella maleodorante contesa politica, e tutto sembra precipitare verso un basso fognario. Centrodestra e centrosinistra, protagonisti di due stagioni amministrative - di Alemanno e di Marino - che è un eufemismo definire un disastro, si presentano all’elettorato con l’umiliante risultato della loro azione.

Nel Pd Matteo Renzi ha dovuto alzare la voce con il suo pur fedelissimo Roberto Giachetti per ordinargli di sacrificarsi candidandosi a sicura sconfitta, e già sono all’opera tutti quelli che, da sinistra, lavoreranno alacremente per rendere ancora più dura la sua vita: Stefano Fassina e Ignazio Marino hanno tutta l’intenzione di candidarsi a sindaco al solo scopo di far soccombere il concorrente renziano. Quanto al centrodestra, è cronaca di queste ore: dopo mille ripensamenti finalmente Giorgia Meloni ha deciso cosa vuol fare e si è candidata, d’accordo con Matteo Salvini, contro il prescelto di Berlusconi, Guido Bertolaso, e naturalmente contro Francesco Storace e Alfio Marchini. In quattro dovranno dividersi un patrimonio elettorale della coalizione fallita che ai tempi di Alemanno ammontava a circa il trenta per cento dei voti, chissà ora.

In tutto ciò, guarda il caso, a camminare su un tappeto di rose è la candidata grillina, la trentottenne Virginia Raggi che secondo i sondaggi già supererebbe il trenta per cento dei consensi ed è pronosticata come il futuro sindaco della Capitale: intelligente, scaltra, di bell’aspetto, riesce a nascondere di essere la prescelta di Gianroberto Casaleggio e di presentarsi all’agone politico come una Signora Nessuno, priva di qualunque esperienza, non diciamo amministrativa, ma in qualsiasi campo se non qualche anno di tirocinio nello studio legale Previti-Giammarco. Il suo vero vantaggio sta nel disfacimento degli schieramenti di destra e di sinistra che, liquefacendosi, aprono sterminati territori di caccia ai grillini.

Se però guardate la situazione di Milano, constaterete un quadro assai diverso. A Milano il centrosinistra ha fatto primarie abbastanza partecipate e non chiacchierate; la gara è stata dura e senza esclusione di colpi ma alla fine i concorrenti hanno accettato con fair play la vittoria di Beppe Sala. Nello stesso tempo il centrodestra ha trovato l’accordo su Stefano Parisi senza precipitare nei disastri romani, e Parisi sta facendo la sua partita senza troppo fuoco amico alle spalle. Risultato? A Milano i Cinque Stelle non solo quasi non esistono ma ora non hanno nemmeno un candidato perché la prescelta (con qualche decina di voti on-line) Patrizia Bedori si è tirata indietro: lei dice perché è stata insultata, i maligni sospettano invece che sia stata ritirata da Casaleggio. In ogni caso a Milano la partita si gioca a due, e lo spazio per il partito grillino è residuale.

Quale lezione si può trarre da queste constatazioni? Una, che non dovrebbe mai essere dimenticata. E cioè che la politica in parte determina la vita della società civile ma in parte ne è condizionata, e quindi dove il tessuto sociale, come a Milano, nonostante tutto è più solido e ricco di potenzialità, i partiti tradizionali e le coalizioni continuano ad avere un loro ruolo dignitoso che fa argine al populismo; dove invece c’è il disfacimento sociale, anche i partiti si frantumano in mille frammenti e il loro fallimento apre le porte al grillismo.

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