Se chiude l’Ilva
paghiamo tutti

La Puglia dell’Ilva dal destino incerto e del mai risolto conflitto tra sviluppo e salute, è lontana dalle nostre Prealpi lombarde, ma per la rilevante presenza qui della siderurgia, e per il futuro di un’economia prevalentemente manifatturiera, quel che succede a Taranto succede davvero sull’uscio di casa. E le cose, nel maxi stabilimento che si affaccia sul Golfo, sono quanto meno preoccupanti anche per l’economia del Nord. Le lancette del tempo girano più inesorabilmente della politica romana e delle trattative sindacali bloccate la scorsa settimana quasi al traguardo, e il 1° luglio scade il termine per la vendita alla cordata Arcelor-Mittal Marcegaglia.

Si chiuderebbe una tribolata vicenda iniziata agli albori della grande industrializzazione di Stato nel Sud e approdata infine nelle mani dei privati, la famiglia Riva, messa spalle al muro, con modalità che assomigliano nella forma ad un esproprio, da un intervento della magistratura molto discusso.

Le acciaierie di Taranto sono tra i più importanti impianti del mondo, molto appetibili per i nuovi signori internazionali dell’acciaio. Fermare l’area a caldo significherebbe mettere a rischio il reddito di 14 mila famiglie e di un indotto ancor più rilevante sul piano sociale ed economico, che riguarda mezza Italia. Per ora, lo ha chiesto solo il gruppo Cinque Stelle al Parlamento europeo, ma il tema è tra quelli previsti nella tela di Penelope programmatica di Salvini e Di Maio. Non si sa quale sarà il punto di caduta, ma l’ipotesi chiusura è sostenuta dai grillini pugliesi in cambio di lavoro per la bonifica del sito. Se dovesse finire così, il conto, per l’Italia, sarebbe molto salato, perché perderemmo un altro pezzo della nostra economia, il retrovia della seconda potenza industriale d’Europa, e perché il giochino costerà netti 3 miliardi, a cominciare dai 900 milioni messi sul piatto dai contribuenti per tenere aperti gli impianti. Il parallelo con Alitalia evoca brividi sinistri.

Per il momento, la gestione costa la perdita di un milione al giorno, e a giugno i soldi finiranno e soprattutto non entreranno 1,8 miliardi che la cordata franco indiana è pronta a pagare. Senza quei soldi saltano aziende e aziendine creditrici e non si riavvia il ciclo industriale. E saltano investimenti ambientali per 1,2 miliardi e tecnici per 1,1.

Il ministro Calenda e il sindaco di Taranto, che già hanno dovuto fronteggiare il fuoco amico del Pd pugliese guidato sulle barricate dal governatore Emiliano, hanno nel frattempo preso le porte in faccia del sindacato che ha interrotto le trattative in attesa del nuovo Governo. La garanzia di occupazione era totale per 10 mila operai su 14 mila, e protetta da misure alternative per i restanti, ma il blocco sindacale per ora tiene, anche se la Cisl è contraria all’interruzione e preferirebbe chiudere prima dei responsi del Quirinale. Per fortuna, l’unico a procedere è il piano ambientale, con interventi protettivi miliardari pagati col rientro dalla Svizzera dei capitali della famiglia Riva, non certo con entusiasmo ma sotto la pressione delle misure cautelari. Si sta coprendo l’area più sensibile e questo potrebbe aiutare a risolvere il problema dei problemi: come conciliare il lavoro con la salute di una città.

Certamente, il caso Ilva è anche un caso di buon senso e buona volontà. E la Puglia è un angolo emblematico di certe contraddizioni. È lì infatti che è esplosa ripetutamente la guerriglia per 300 ulivi da espiantare e ricollocare dopo il passaggio di un km sotterraneo di un tubo di mezzo metro di diametro, ultima tappa di un percorso di 1.500 km per portare gas a scaldare e far funzionare il nostro Paese. Ulivi che a quanto risulta stanno bene, mentre nella stessa Puglia, come segnalato da una bella inchiesta di Federico Fubini sul Corriere, sono già andati perduti 11 milioni di esemplari solo nel Leccese, causa Xilella, e l’epidemia sale sempre più a Nord. Milioni di alberi sono stati sequestrati da tre anni ma non abbattuti per far barriera all’infezione. Rimasti lì per «superstizioni e atteggiamenti antiscientifici», scrive Fubini: il danno economico è già di un miliardo, e l’Europa minaccia di chiedere risarcimenti. Forse pagheremo in proventi dell’acciaio, ma solo se salviamo l’Ilva.

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