Se il ceto medio
chiede aiuto

Il nome è lungo: centri di primo ascolto e coinvolgimento parrocchiali (cpac). Ma risalta il termine «ascolto», così fuori moda in un’epoca che ha fatto del profluvio delle parole un’arma per l’affermazione individualista. E invece c’è chi è ancora capace di ascoltare, un atteggiamento di apertura che ci mette in relazione con il prossimo per conoscerlo. Nelle pagine della cronaca cittadina oggi pubblichiamo il resoconto di un’indagine sull’attività dei centri nel territorio della nostra diocesi.

Sono 71 (67 hanno partecipato all’inchiesta) e il numero è quasi raddoppiato dal famigerato 2008, nel quale è esplosa la grave crisi economica della quale siamo ancora in balìa, al 2015: da 44 a 71, 28 dei quali avviati nel solo 2009. A Bergamo sono 14. L’attività dei centri ruota intorno a tre azioni: accogliere, ascoltare appunto e accompagnare. Cresce anche il numero delle parrocchie coinvolte dalla presenza di un «cpac»: erano 105 nel 2008, sette anni dopo sono 225 (il 58% delle parrocchie ha un centro). Le risposte che danno sono molteplici: dal pagamento delle bollette alla distribuzione di abiti, dall’acquisto di farmaci alla ricerca del lavoro e della casa. Se nel cpac «Porta dei cocci» in città si rivolgono soprattutto persone in grave marginalità sociale, in quelli parrocchiali prevalgono i «normali», con bisogni contingenti o improvvisamente impoveriti, rappresentanti di famiglie vulnerabili. Nel 2015 ai 66 centri si sono rivolte 6.298 persone (51.600 le prestazioni erogate): in calo dal 2008 (erano 8.568), ma aumentano gli utenti italiani (69% in più, da 894 a 1.504). Calo che riguarda soprattutto persone straniere, in seguito al rallentamento di nuovi arrivi o al rientro nella patria d’origine. Tra i 1.504 italiani che nel 2015 si sono rivolti ai centri, il 37% lo ha fatto per la prima volta. Sono persone fra i 31 e i 60 anni, il 40% è coniugato e il 10% convivente. Il 49% chiede aiuto perché ha perso il lavoro.

Ma ci sono altri dati sui quali in particolare vale la pena riflettere. Negli ultimi anni aumenta la percentuale di chi pur avendo un’occupazione si trova comunque in condizioni di fragilità economica. E poi crescono le persone con diploma di scuola media superiore o laureate (dal 5% del 2008 all’11% di sette anni dopo). Sono gli appartenenti al ceto medio: la perdurante crisi ne ha eroso lo status. Il bagaglio culturale e professionale, adeguato in altri tempi, ora non fa più da scudo. Troppo giovani per andare in pensione, ma considerati troppo vecchi per un nuovo inserimento lavorativo, sono incagliati in un limbo inquietante, con figli ancora in età scolare.

I centri si occupano di questa minoranza della popolazione bergamasca ma in una condizione di disagio che rischia di diventare cronica. Una minoranza spesso ignota, se non a chi la incrocia personalmente. Ad aggravare il quadro poi i tagli praticati in questi anni dallo Stato a danno delle politiche sociali, in ossequio alle esigenze dell’implacabile patto di stabilità. «Siamo però in presenza - è scritto nell’indagine - di una certa “assuefazione” verso alcune povertà, come ad esempio quelle legate alla grave marginalità sociale, la cui “attenzione” è ormai quasi esclusivamente delegata a fondazioni di origine bancaria».

La conclusione che si potrebbe trarre da quanto scritto fini qui, è lo sconforto. Potrebbe, perché c’è un altro punto di osservazione. I centri appartengono alla categoria dei cosiddetti «servizi segno»: sono cioè una testimonianza nelle comunità perché «si facciano sempre più carico - dice ancora l’indagine - delle povertà presenti sul territorio e costruiscano, con la “fantasia della carità”, le risposte più adeguate». È un rilievo decisivo. I centri sono definiti di primo ascolto proprio perché rappresentano l’inizio di un percorso, non un’attività puramente assistenziale: l’obiettivo è l’accompagnamento delle persone, quando possibile verso l’autonomia, non la loro dipendenza, in collaborazione con altri enti, pubblici e del non profit. Nel 2015 ad esempio a 332 persone è stato trovato un lavoro e ad altre 23 un alloggio idoneo. L’incontro con i volontari nei centri - sui quali si regge l’attività: 916 nei 66 «cpac» indagati dal questionario, in prevalenza pensionati e casalinghe, a rimarcare la necessità di nuove forze e di una più ampia partecipazione generazionale - rompe poi il muro della solitudine nel quale sono rinchiusi gli indigenti rispetto al contesto sociale. Un’attività quindi che arricchisce di umanità le nostre comunità e le rafforza.

L’ultima considerazione riguarda invece l’accusa in voga, per altro becera, rivolta alla Chiesa perché «aiuta solo i migranti». Le attività e i numeri dicono che non è così. È la realtà a dettare le priorità, non le ideologie, come dimostra anche un nuovo servizio, l’Ambulatorio di prossimità nato dalla collaborazione tra Caritas e Casa di cura Palazzolo per dare risposta anche alle richieste di prestazioni sanitarie gratuite. Chi scaglia quel giudizio potrebbe semmai prestarsi nel dare una risposta alle esigenze umane e sociali che altri affrontano.

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