Sicilia, elezioni
e teatro dei pupi

La ripresa politica dopo la pausa estiva si annuncia nel segno della verifica elettorale siciliana, in calendario per il prossimo novembre. Il voto è pur sempre il voto. Non c’è stata elezione - parziale, locale, regionale - che non abbia comportato conseguenze sul quadro politico nazionale. D’Alema nel 2000 si sentì in dovere di rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio solo perché il suo partito non aveva ottenuto un confortante risultato alle regionali, in specie nel Lazio dove il centrosinistra aveva dovuto cedere il passo al candidato del Popolo della libertà, l’ex missino Francesco Storace. Non corre questo pericolo Gentiloni, se non altro perché la legislatura è in dirittura finale e nessuno vuole assumersi la responsabilità di decretarne la fine anticipata.

Il passaggio elettorale non sarà, comunque, privo di ricadute politiche anche se eserciterà i suoi effetti in modo difforme dal consueto. La Sicilia non è l’Ohio, non è cioè lo Stato americano che anticipa le svolte politiche a livello centrale. Non ha mai funzionato da test capace di anticipare i futuri trend elettorali nazionali. Tanto meno lo può essere oggi.

Una società, quella siciliana, da sempre alla ricerca di una protezione politica, partiti poco credibili, leader per nulla carismatici – alcuni poi decisamente improbabili – alleanze stabilmente reversibili, un consenso elettorale ballerino. Vedere per credere.

I centristi di Alfano, ex Nuovo centrodestra ma al governo nazionale col centrosinistra, disposti ad allearsi indifferentemente con quello dei due poli che si dimostri più generoso di candidature sicure. Centrodestra e centrosinistra non da meno del loro questuante nel gioco al rialzo di promesse. Un governatore uscente, Rosario Crocetta, noto per aver occupato più del suo tempo a sostituire gli assessori che non a risanare il bilancio da incubo della Regione, è scaricato anche dal suo partito, ma nonostante tutto minaccia fulmini e saette se non è riproposto alla guida di Palazzo dei Normanni.

Una sola cosa manca, l’unica importante: un chiaro impegno a riportare la Regione negli standard di una sana – o meglio, di una risanata – amministrazione. Insomma, più che una normale competizione elettorale, sembra un teatro dei pupi in cui gli interpreti cambiano i ruoli a loro piacimento.

Se non può funzionare da laboratorio della politica nazionale, la campagna elettorale siciliana serve però come suo reagente. Ha fatto emergere almeno tre importanti elementi nuovi, cui corrispondono anche tre limiti dei nostri attori politici. La ritrovata capacità del centrodestra di riunificare le sue sparse membra, anche se al lordo delle persistenti discordie interne.

La rottura consumata dagli scissionisti di Bersani con la casa madre del Pd, a conferma della vocazione tafazziana della sinistra a farsi male da sola, preoccupata più di danneggiare i rivali del suo campo che non gli antagonisti del campo opposto. La pervicacia dei Cinquestelle a proporsi come battagliera forza di protesta piuttosto che come credibile forza di governo. La loro è solo incapacità ad andare oltre la trita quanto evasiva parola d’ordine di una democrazia diretta (impercorribile) per dotarsi di un concreto programma di legislatura e di un’affidabile classe dirigente.

Ma, parafrasando don Abbondio, il coraggio (di emendarsi, nel nostro caso) chi non ce l’ha non se lo può dare.

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