Soluzione positiva
ma con tante incertezze

Dunque, soluzione positiva: il governo c’è, meglio del salto nel buio elettorale. Ogni esecutivo merita i migliori auguri, possibilmente anche di quell’Italia dei risparmiatori che sta contando i danni di giorni surreali. Trattative inedite, riprese e chiuse attraverso un canale riaperto con il Quirinale dopo l’oltranzismo di Salvini e le spericolate manovre di Di Maio contro Mattarella. Il vecchio manuale Cencelli è vivo e lotta sempre insieme a noi, anche in tempi di dichiarato cambiamento. In quello che promette di essere una miscela fra interessi nazionali e dimensione europea, la prima impressione è di un ibrido con innesti tecnici di varia natura, ma non ancora di una sintesi.

La cifra politica è data da Salvini e Di Maio, entrambi vice premier e alla guida di ministeri chiave: il primo all’Interno e il secondo al Lavoro. La maratona che ha portato all’accordo era stata voluta dal leader grillino per stanare e mettere nell’angolo Salvini, ma fin lì portato per mano dall’abile spregiudicatezza del capo leghista. In realtà, a conti fatti, in questo governo, che per la prima volta esclude le forze tradizionali, c’è un leggero squilibrio a destra e non solo per l’appoggio esterno di Fratelli d’Italia. Fra i due, è forse il leader leghista ad avere un margine in più, anche perché dispone di un partito strutturato, che conosce i corridoi del potere e di un elettorato che, a differenza dei 5 Stelle e dell’improvvisazione del suo leader, segue come una falange. La Lega si assicura il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (la cabina di regìa per eccellenza) con Giorgetti, il volto istituzionale del partito, un professionista che non entra nel Palazzo perché non ne è mai uscito e uomo dalla frequentazione con i poteri che contano. Quel che appare è una distribuzione di compiti: i grillini addetti alle pratiche concrete di governo, i leghisti titolari di quei ministeri dalla forte impronta nazionale e simbolica come gli Interni e l’Agricoltura. Da un lato il volto sociale, dall’altro il tratto della sicurezza senza se e senza ma.

Dopo uno psicodramma fatto di bluff, rilanci, fughe in avanti, passi indietro e qualche vulnus al sistema liberaldemocratico, è lecito interrogarsi su quali basi si fondi la coscienza istituzionale del governo e chi ne sia il garante. Qualche contraddizione, o comunque il tentativo di tenere insieme gli opposti, si vede. Il ministro degli Esteri, Moavero, un europeista già nella squadra di Monti e Letta, deve convivere pur sempre con Savona. L’economista anti euro, il nome della discordia e l’ostacolo rimosso, è stato ridimensionato agli Affari europei, un dicastero minore, che tuttavia deve interloquire con le cancellerie dell’Ue, a cominciare dalla Germania, e deve occuparsi delle direttive europee. Il ministro dell’Economia, Tria, che appartiene all’area culturale di Forza Italia, dovrà confrontarsi con i costi del reddito di cittadinanza (o di quel che rimarrà), anche perché nel frattempo, con un debito al 132% del Pil, andranno sterilizzate le clausole di salvaguardia per evitare l’aumento dell’Iva. Sul piatto, come copertura, bisogna mettere 13 miliardi di euro. Il tema da qui in avanti è chi garantisce politica economica e collocazione internazionale. Non basta smacchiettare la scritta contro l’euro nel quartier generale della Lega, perché finora abbiamo sentito tutto e il suo contrario. E anche le voci di quegli imprenditori del Nordest che hanno votato Lega e che ora rumoreggiano, perché consapevoli che i loro territori devono molto all’Europa. Una questione centrale riguarda il ruolo del premier: sarà nel pieno delle sue funzioni o costretto ad un ruolo gregario, lavorato ai fianchi dai due vice premier? Il punto è essenziale, anche ai fini costituzionali, aspetti che fin qui i due gemelli diversi del populismo italiano hanno trattato con disinvoltura. Il presidente del Consiglio, dice l’articolo 95 della Costituzione, «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene la unità d’indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri».

Finora il giurista Conte, pur scontando le difficile condizioni date, è parso più un esecutore del contratto che un carattere in grado di orientare la piattaforma programmatica. Se non sarà così, tanto di guadagnato per tutti. Tocca, però, a Salvini e a Di Maio l’onere di smentire quel che è andato in scena. L’idea, cioè, di una concezione privatistica del potere incompatibile con la cornice istituzionale, per cui la legittimazione elettorale autorizza i parziali vincitori a tutto fare e a tutto pretendere. La tentazione di una concezione distorta della democrazia, assegnando una spinta assoluta alla sovranità popolare e mettendo in discussione valori, pesi e contrappesi disegnati dalla Costituzione.

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