Sonno dei giovani
Rivolta dei cuscini

È vero. Ho sperato. Quando ho aperto il giornale di martedì scorso e ho visto l’immagine di un manipolo di giovani urlanti nella sala del consiglio comunale ho davvero sperato. Mi son detto: finalmente questi ragazzi si fanno sentire, staranno protestando contro il Jobs Act che aumenta la loro precarizzazione, saranno lì per chiedere che si pensi anche al loro futuro o per protestare contro il cambiamento climatico o la morte per fame di milioni di esseri umani. Saranno tutti in trepidante attesa dell’enciclica ecologista del Papa.

Pochi secondi sono bastati per trasformare la speranza in triste amarezza. I ragazzi erano i gestori dei locali di Santa Caterina che protestavano contro il regolamento appena varato dall’amministrazione comunale che limita gli orari di chiusura dei loro esercizi commerciali. Quindi niente rivolta generazionale, niente mobilitazione giovanile, nessuna riscoperta delle ragioni dell’impegno. Niente di tutto questo. Solo un gruppo di giovani commercianti infuriato perché ritiene che far chiudere i propri locali all’una e trenta del mattino per tutelare il diritto al riposo di chi abita nella via sia un insopportabile attentato alla libertà di impresa, una minaccia al trionfo del libero commercio, un ukase bolscevico.

Mi riprendo dalla delusione e cerco di trovare un’interpretazione di tanta rabbia. Certo vi è il desiderio di liberarsi da ogni vincolo, da ogni regola, di fare soldi senza rispondere dei danni che si producono per la comunità. C’è probabilmente tutto questo. Ma c’è anche altro. C’è che probabilmente davvero i bar notturni raccolgono il grosso dei loro incassi dopo l’una del mattino. Perché i giovani proprio a quell’ora arrivano in massa nel Borgo.

E non vogliono cambiare abitudini, non vogliono rassegnarsi ad andare a letto un po’ prima, consentendo di fare lo stesso anche agli abitanti della via. In questo atteggiamento ostinato, io intravedo il sintomo di una volontà di affermazione giovanile, di un’isolata prova di forza da parte della «generazione invisibile» dei nostri ventenni, che da qualche anno nottetempo occupa con protervia le strade delle nostre città. Sono convinto che il fitto chiacchiericcio notturno sulla soglia dei bar sia il loro modo per farsi sentire collettivamente, un simulacro di quell’azione collettiva che da tanti anni manca sulla scena pubblica italiana, un modo per ribadire, disturbando la quiete pubblica e facendosi riprendere dalle telecamere o dalle macchine fotografiche in assembramenti fitti fitti di centinaia di persone, che loro esistono, che sono diversi dagli altri abitanti della città e che rappresentano potenzialmente una minaccia, che se solo volessero… ahinoi. C’è insomma un tratto implicitamente aggressivo in quel vociare notturno collettivo. Un tratto che richiama alla mente altre generazioni, altri momenti storici nei quali i giovani sono stati protagonisti, nei quali gli ultimi arrivati sulla terra hanno distrutto sistemi sociali fatiscenti, issato ghigliottine, attaccato palazzi d’inverno, affrontato le autorità costituite nelle piazze, nelle università, nei luoghi di lavoro.

Peccato che quello di oggi sia appunto un pallidissimo e grottesco succedaneo della tradizionale energia rivoluzionaria giovanile, che non produce nulla se non un tenue rumore di disturbo, un fastidioso sottofondo notturno. Di giorno, molti dei nostri ragazzi appaiono rassegnati ad accettare tutti i patimenti sociali che le generazioni precedenti hanno deciso di imporre loro, tutte le ingiustizie, le storture, le malvagità che i più anziani hanno congegnato per i nostri sistemi sociali.

Non portano nessuna nuova cultura politica questi giovani, nessun rinnovamento, nessuna utopia. Appaiono piuttosto depressi, abulici, impauriti, rassegnati all’inevitabile: a paghe da fame, ad un eterno precariato, a marginalità politica garantita. Solo quando sono tra di loro, quando intrecciano le trame delle loro fitte conversazioni (di cosa diavolo parleranno poi per ore e ore?), finalmente si rianimano, ritrovano entusiasmo e gioia, si riconoscono e galvanizzano. E si mostrano a noi che li scrutiamo silenziosi nella notte. Come mi piacerebbe poter sentire da loro una voce di speranza, un invito a guardare con ottimismo un futuro diverso e migliore! Ma questo è, per ora, solo un sogno. Un sogno diurno in una stagione triste.

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