Sovranità popolare
e apprendisti stregoni

La sovranità popolare è un fondamento delle democrazie e non può mai essere messa in discussione. Così come lo sono i diritti di partecipazione, conquista faticosa e sempre aperta a nuovi orizzonti. Di ciò noi italiani abbiamo un presidio solidissimo nella Carta costituzionale. Tanto premesso, l’uscita del Regno Unito (ironia della parola) dall’Unione Europea deve indurre - oltre alle valutazioni sulle conseguenze della scelta compiuta nel referendum di giovedì scorso - a urgenti riflessioni sull’uso degli strumenti della democrazia.

È fuor di dubbio che l’esito di quel voto sia il frutto di elementi eterogenei. Ad alcune vecchie storture nell’impianto e nell’azione concreta delle istituzioni europee si sono aggiunte il morso della crisi economica mondiale e le dimensioni assunte dalla migrazione di milioni di persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.

In siffatto contesto i governi dei Paesi del Vecchio continente sono obbligati a misurarsi con problemi di inaudita difficoltà. E qui emerge la miopia e, insieme, l’avventurismo di talune scelte. Di fronte all’aggressività dell’estremismo politico che predica ritorni a un passato non replicabile, la scelta - apparentemente nobile - di rimettere tutto nelle mani dell’elettorato mostra la sua pochezza, rischiando di trasformarsi in un boomerang per la democrazia.

Lo strumento del referendum, in particolare se promosso da chi ha responsabilità di governo, rende inevitabile la radicalizzazione. Poiché gli elettori possono dire soltanto sì o no, gli istinti (le viscere) finiscono inevitabilmente per prevalere sui comportamenti razionali (la testa). I toni della campagna referendaria nel Regno Unito - anche volendo prescindere dall’orribile gesto dell’assassinio di Jo Cox - hanno messo in luce dove conduca la strada della schematizzazione estrema di questioni complesse. Toni da corrida, impossibilità di far emergere sfumature e aspetti anche meno appariscenti della scelta da compiere.

Fin qui, con sbocchi ancora da decifrare, la Brexit. In Italia il referendum, voluto da Renzi, sulla riforma costituzionale approvata nei mesi scorsi mette il Paese di fronte a uno scenario analogo, con conseguenze, quale che sia l’esito, meno devastanti sul piano internazionale, ma assai rilevanti per gli equilibri politici nazionali. Del resto, già da settimane, la temperatura si sta rapidamente alzando. Il paradosso della vicenda è in un incrocio perverso. Mentre si chiama il popolo a pronunciarsi con un secco sì/no su un terreno di elevata complessità, resta in vigore una legge elettorale che premia i «prescelti» dei partiti e lascia pochissimo spazio al diritto dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento.

Si sta appannando l’altro criterio fondamentale delle democrazie: la rappresentanza. Baluardo insostituibile nelle società che non possono affidarsi - come nella Grecia antica - alla democrazia diretta. Di fatto, chi governa privilegiando, con sottile vena populistica, la chiamata diretta del popolo, si mette nei panni dell’«apprendista stregone». Con rischi pesanti per tutti.

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