Sulla flat tax
troppe speranze

La proposta di una flat tax, cioè di un’aliquota fiscale piatta, di cui tanto si è parlato nel corso della recente campagna elettorale da parte di Forza Italia (23%) e della Lega (15%), richiede qualche puntualizzazione. Il suo principale obiettivo è quello di recuperare, attraverso un incisivo abbattimento delle aliquote, una quota rilevante di evasione fiscale tramite un prevedibile aumento dei contribuenti. Non mancano, però, alcune controindicazioni. È evidente che la flat tax avvantaggerebbe i contribuenti più ricchi e sarebbe, quindi, in contrasto con l’esigenza, che è propria di ogni sistema capitalistico, di assegnare alla politica fiscale una funzione redistributiva.

Nel nostro Paese, in particolare, l’art. 53 della Costituzione recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». L’introduzione in Italia di una flat tax renderebbe pertanto necessario prevedere meccanismi adeguati e ben articolati di deducibilità, che siano in grado di rendere concreto il rispetto del principio di progressività. Tenuto conto, poi, che nei primi anni di applicazione della riforma verrebbero meno introiti per decine di miliardi, la sua applicazione, per gli impegni di bilancio assunti con l’Europa, dovrebbe essere collegata a riduzioni di spese derivanti da un’efficace spending review. Nel medio termine, peraltro, benefici al bilancio potranno certamente derivare dalla prevedibile crescita dell’economia assicurata dalle maggiori risorse disponibili per investimenti e per consumi. In ogni caso, va tenuto conto che fino ad oggi nessuno tra i grandi Paesi occidentali ha adottato la flat tax. Ciò è avvenuto in diversi Paesi dell’Est europeo - Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina, Romania, Macedonia, Bulgaria, Albania - principalmente allo scopo di attirare, con un’aliquota bassa, investimenti stranieri in grado di rilanciare le loro economie dopo la caduta del Muro di Berlino.

Emblematico è soprattutto il caso della Russia dove nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse una flat tax del 13%. Egli aveva raccolto un Paese devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporazioni e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998. Il clima era di sostanziale sfiducia, nessuno pagava le tasse e i cosiddetti oligarchi spostavano centinaia di miliardi di dollari a Londra e nei paradisi fiscali. La tassa del 13% servì, più che alla crescita, a riportare un certo ordine, a razionalizzare il sistema economico, a frenare parzialmente la corruzione e la fuga dei capitali all’estero e a garantire un minimo di stabilità politica attraverso più consistenti entrate fiscali. Il vero motore della ripresa russa è stato rappresentato dallo sfruttamento delle risorse energetiche - petrolio e gas - le cui riserve sono enormi e rispetto alle quali la differenza tra il costo di produzione e la vendita ha garantito introiti eccezionali. Dopo quasi 20 anni di flat tax, un risultato certamente assai negativo è quello di aver prodotto pericolose ineguaglianze economiche e sociali dalle quali non sono derivate gravi conseguenze in virtù di una gestione a dir poco risoluta del potere attuata da Putin. Oggi la Russia è uno dei Paesi più «diseguali» al mondo; il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza nazionale e l’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari. In Italia negli ultimi 20 anni la quota di ricchezza nazionale detenuta dal 90% meno benestante della popolazione si è ridotta dal 60% al 45%, mentre il 10% più ricco detiene il 55%. C’è estrema necessità di ridurre e non di far crescere le già pesanti diseguaglianze.

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