Tre sfide che Renzi
non può perdere

Prima di tirare le somme di questa tornata elettorale sarà bene aspettare l’esito della seconda domenica di votazioni. Non solo perché il ballottaggio rappresenta tutta un’altra storia e rende quindi difficile prevedere i risultati, se non altro per il grado di aleatorietà che comporta un calcolo fondato sul possibile orientamento degli elettori delle liste escluse. Ma anche perché i voti raccolti al primo turno con una logica sostanzialmente proporzionale non sono assommabili ai voti ottenuti al secondo turno in una competizione a due.

Infine, perché dal computo finale bisognerà comunque scorporare i consensi raccolti dalle liste civiche, l’enorme maggioranza. Non bisogna poi dimenticare che stiamo parlando di elezioni amministrative, per di più parziali. Assodato che individuare precise tendenze elettorali da una consultazione di siffatta specie è un’operazione tanto delicata da aver portato gli stessi istituti di ricerca demoscopici a conclusioni non concordanti, non si può negare che dal voto siano comunque emerse alcune precise indicazioni che le forze politiche farebbero bene a non sottovalutare. Tutte le forze politiche, nessuna esclusa ma, per il posto che occupa, in sommo grado Renzi.

Con tutte le avvertenze del caso (si tratta pur sempre di votazioni influenzate da orientamenti sulla gestione di municipi e da interessi locali) e con tutti i dati confortanti possibili che il segretario dem può vantare (a partire dall’en plein di sindaci eletti, circa mille, riconducibili alla sua parte politica) il capo del governo e segretario del Pd non può chiudere gli occhi davanti ad un grave scompenso che la sua azione sta accusando.

È di tutta evidenza, al di là del giudizio di merito che se ne voglia dare, che «il giovin fiorentino» abbia impresso una svolta radicale nella vita del suo partito e, più in generale nella vita politica del Paese. Questa svolta si chiama, senza tanti giri di parole, presidenzializzazione del nostro impianto istituzionale. È una tendenza, questa, in corso da decenni in tutte le democrazie d’Occidente, che si reggano su premierati (Inghilterra), su cancellierati (Germania), sul semi-presidenzialismo (Francia) o esplicitamente sul parlamentarismo (Spagna). Per oltre un secolo le redini delle assemblee elettive sono state saldamente nelle mani delle segreterie di partito tanto che si è finito col parlare di regimi partitocratici. Oggi il baricentro del potere decisionale - basta guardarsi attorno per constatarlo - gravita sempre più intorno all’esecutivo. Renzi (in controtendenza alla linea storicamente difesa dal suo partito e ora intransigentemente assunta dalla minoranza interna), invece di contrastare tale processo, ha deciso di secondarlo. Le leve da azionare per chi promuova il passaggio dal parlamentarismo ad una qualche forma di presidenzialismo sono sostanzialmente tre: i1 rafforzamento del potere esecutivo, il consolidamento del primato del leader/premier nei confronti del proprio partito, la legittimazione diretta della leadership attraverso il dialogo diretto con l’ opinione pubblica. Tutte e tre sfide decisive.

Renzi ha mostrato di sapersi destreggiare egregiamente su due di queste sfide: il potenziamento dell’esecutivo e la personalizzazione della leadership. Ha trascurato invece la terza. Non si è creato un suo partito personale (come ha fatto Berlusconi) né si è impegnato a conquistare le casematte della «ditta». Si è limitato a rottamare il Pd senza ricostruirlo allevando una nuova classe dirigente locale a lui devota e affidabile agli occhi dell’opinione pubblica. Il risultato elettorale di domenica non ha fatto che evidenziare questo deficit della sua strategia.

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