Un attacco simbolico
Messaggio a Mosca

Se i missili americani sono «molto intelligenti», come dice Donald Trump, allora devono essersi detti che non era il caso di fare troppi danni. La prima impressione dopo le incursioni di Usa, Francia e Regno Unito sulla Siria, infatti, è quella di una serie di bombardamenti tanto spettacolari quanto simbolici. La maggior parte dei missili è stata intercettata dalle difese antiaeree disposte dai russi, un vecchio sistema dell’epoca sovietica. Gli altri sono caduti su obiettivi significativi di nome ma non di fatto, impianti e centri di comando che erano un bersaglio così ovvio da essere stato, con ogni probabilità, sgombrato in anticipo.

Gli eventuali tifosi di Bashar al-Assad e di Vladimir Putin sbaglierebbero, però, a gridare vittoria. Per ragioni diverse ma precise. Per quanto riguarda Assad, perché non era lui il bersaglio di questi attacchi. Mentre Putin sa benissimo che le bombe sganciate sulla Siria erano metaforicamente dirette contro il Cremlino e che la loro carica politica è potenzialmente assai più distruttiva di quella esplosa sul campo. Da questo punto di vista, infatti, abbia o no l’aviazione siriana sganciato armi chimiche sulla città di Douma (cosa non impossibile ma ad oggi ben lungi dall’essere provata), le attuali operazioni militari di Usa, Francia e Regno Unito vanno ad aggiungersi alla lista in cui già si trovano il «caso Skripal» (l’avvelenamento della ex spia russa, quello sì una vera bufala) e, andando a ritroso, il sostegno americano ed europeo al colpo di Stato che ha rovesciato, in Ucraina, il regime filorusso di Viktor Janukovich, le sanzioni economiche, l’installazione in Romania e Polonia del sistema missilistico «Aegis Ashore», l’allargamento a Est della Ue e soprattutto della Nato, azioni che il sistema occidentale ha intrapreso per intimidire Mosca.

Negli ultimi anni, infatti, è successa una cosa che ha colto di sorpresa molte cancellerie. La Russia non solo non è crollata sotto il peso dei problemi interni e delle ostilità esterne, come prevedevano molti politologi, ma ha resistito, si è ridata un atteggiamento da potenza che dispiace a molti ma corrisponde in pieno allo spirito del suo popolo. E ha cominciato a reagire. Alla crisi in Ucraina ha risposto rioccupando la Crimea. All’espansione della Nato ha contrapposto un riarmo che sorprende, considerati le difficoltà della sua economia. In Siria ha mandato a monte i piani degli Usa e dei loro alleati del Golfo Persico salvando Assad e impedendo che la Siria fosse smembrata tra l’emanazione saudita chiamata Isis, le formazioni terroristiche dei Fratelli Musulmani finanziate dal Qatar e i desideri di Turchia e Israele.

La Russia, insomma, ha cominciato ad accettare quel confronto a viso aperto che negli anni ’90 aveva sempre rifuggito. Com’è ovvio, tale atteggiamento non poteva rimanere senza risposta. Usa, Francia e Regno Unito cercano ora di trasformare la Siria in un nuovo Afghanistan, sperando che la Russia s’impantani a Damasco come accadde all’Urss a Kabul. Putin è conscio del rischio. Questo sarebbe, per lui, il momento di raccogliere i frutti della vittoria, cosa che non può avvenire se la guerra si prolunga senza fine. Anche per questo le sue forze armate hanno adottato una difesa solo passiva nei confronti dei bombardamenti del trio Usa-Francia-Regno Unito. Il Cremlino ha interesse a raffreddare la situazione, non a surriscaldarla. Trump e i suoi alleati, al contrario, possono accontentarsi anche di una simbolica dimostrazione di forza perché sanno di poterla replicare quasi all’infinito. A ogni replica Putin sarebbe costretto a scegliere. Subire, contenere i danni? O reagire, magari non in Siria ma in Ucraina? E se un missile russo affondasse una nave americana o abbattesse un caccia francese, che cosa succederebbe? Riuscirebbe la Russia a resistere? È un gioco di nervi, una partita che ha come posta la guerra. E con i giocatori che si vedono in giro, non c’è molto da stare tranquilli.

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