Usa-Unesco sottovalutata
la «potenza» della cultura

La decisione degli Stati Uniti di uscire dall’Unesco dice quanto siano sempre potenti nel mondo globalizzato e omologato i simboli e la cultura. Lo scorso luglio l’Unesco (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) aveva riconosciuto la Tomba dei Patriarchi e la città vecchia di Hebron, in Cisgiordania, «sito palestinese» del Patrimonio mondiale. Scelta su una materia e un territorio iper sensibili, compiuta senza le cautele che un ente sovranazionale come l’Unesco dovrebbe rispettare.

La Tomba dei Patriarchi, infatti è il secondo luogo santo dell’ebraismo, in quanto sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma è anche luogo di devozione per i musulmani che lo chiamano «Santuario di Abramo» o «Moschea di Abramo». Inoltre Hebron, che si trova a 30 km da Gerusalemme in territorio palestinese, è in realtà regolata da un Protocollo che l’ha divisa in due settori, uno a controllo dei palestinesi (sono la stragrande maggioranza), l’altro a controllo israeliano, con regime rigido di controlli e di permessi che rendono la vita molto drammaticamente complicata. A tutto questo va aggiunta l’espansione degli insediamenti israeliani su territori inizialmente destinati allo Stato della Palestina.

Insomma siamo in una zona delicatissima, dove ogni decisione diventa materia di infinite contese e negoziati. Lo stesso sito archeologico è regolato da norme molto bizantine, che rendono possibile l’accesso alle tombe agli ebrei solo in occasione di dieci festività durante l’anno. In un contesto così esplosivo l’Unesco è intervenuta più volte a gamba tesa. Nel 2010 dichiarando che le Tombe erano integralmente in territorio palestinese. Poi a luglio facendone il terzo sito Patrimonio mondiale palestinese (gli altri sono la Basilica della Natività e il villaggio di Battir). Israele da parte sua ha nove siti riconosciuti dall’Unesco, ma il possibile decimo, la Città Vecchia di Gerusalemme, per l’Organizzazione Onu non è assegnata a nessuno Stato; a maggio un’altra risoluzione aveva negato la sovranità di Israele su Gerusalemme, creando infinite polemiche anche in Italia, per il voto contrario deciso dal governo.

Ora a incendiare ulteriormente lo scontro arriva la decisione di Trump di uscire dall’Unesco (anche Israele ha annunciato di seguire la stessa strada). È una scelta questa volta non dettata dall’oltranzismo trumpiano, perché in linea con l’amministrazione Obama che aveva sospeso i finanziamenti all’organizzazione dal 2011, quando era stata accettata la Palestina come Stato membro. Ora l’Unesco è in credito di circa 50 milioni di dollari da quello che è sempre stato il suo maggior finanziatore, seppur con scarsa voce in capitolo. L’uscita americana avviene oltretutto alla vigilia della elezione del nuovo segretario generale, carica per la quale è favorito un arabo, il qatariota Hamad Bin Abdulaziz Al Kawari. Una nomina che se avvenisse avrebbe conseguenze ancor più pesanti rispetto ai fatti degli ultimi giorni.

La storia dell’Unesco è sempre stata contraddistinta da una forte vocazione antioccidentale e terzomondista: già nel 1984 gli Stati Uniti di Reagan si erano ritirati dall’organizzazione, perché accusata di un piano guidato dai Paesi comunisti di mettere i bavagli alla libertà di stampa in Occidente. Ma se l’Unesco ha assunto un profilo di questo tipo, probabilmente, è anche a causa di una certa sottovalutazione che i Paesi occidentali e gli Usa in particolare, rispetto alla «potenza» della cultura, in quanto memoria che non perde mai la sua attualità e la sua incidenza nella vita delle persone e degli Stati.

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