Il tumore, la paura e il sollievo
Lo Bianco: «Tornerò in campo»

ll pallone: l'attrezzo più semplice e più bello del mondo. Il primo giocattolo che un bimbo, appena è in grado di reggersi sulle gambe, prende a calci o tenta di afferrare con le manine. Che cosa c'è di più bello di un pallone? Niente, non c'è niente più bello di un pallone. Chiedetelo a Eleonora Lo Bianco.

ll pallone: l'attrezzo più semplice e più bello del mondo. Il primo giocattolo che un bimbo, appena è in grado di reggersi sulle gambe, prende a calci o tenta di afferrare con le manine. Che cosa c'è di più bello di un pallone? Niente, non c'è niente più bello di un pallone.

Chiedetelo a Eleonora Lo Bianco, la fuoriclasse della Foppapedretti che da poche ore è tornata in palestra a flirtare con quello che per lei è da sempre uno strumento di lavoro. E che ora è anche speranza, gioia, vita. Da più d'un mese Leo sognava questo giorno: per la precisione da mercoledì 1 dicembre, quanto all'Istituto Europeo Oncologico di Milano le è stato asportato un tumore a un seno.

Lo Bianco, che sensazione fa tornare in palestra dopo questa brutta avventura?
«Si potrebbe fare della retorica a non finire, parlando di ritorno alla vita, visto che la pallavolo è gran parte della mia vita. Ma io ho sempre tenuto i piedi ben piantati per terra anche nei momenti più delicati. Quindi, mi limito a dire che è un momento che speravo tornasse in fretta sin dal giorno successivo a quello dell'operazione».

Partiamo dai momenti delicati: quando e come si è accorta che c'era qualcosa che non andava?
«In Giappone, durante il Mondiale. Osservandomi con attenzione, ho scoperto sulla pelle qualcosa che mi riesce difficile definire: diciamo un incavo, una smagliatura. E all'autopalpazione ho sentito che sotto c'era qualcosa di duro, un nodulo insomma. Ma non ne ho parlato con nessuno, tranne che con una compagna di squadra. Non ho detto niente neanche al medico della Nazionale».

Perché?
«Mancava un paio di giorni al rientro in Italia e ho preferito fare tutto una volta tornata a Bergamo. Mi sono rivolta subito a un'amica radiologa, che mi ha anticipato ciò che sarebbe risultato il giorno dopo all'accertamento clinico: un nodulo che andava asportato il più presto possibile. Nel giro di poche ore sono entrata all'Istituto Europeo Oncologico di Milano, dove sono stata presa in cura dall'équipe del professor Veronesi. Lì i medici hanno parlato chiaro sin dal primo momento. Con molto tatto, ma senza nascondere niente, mi è stato detto che c'era un ventaglio di ipotesi: dalla più benevola, cioè che tutto sarebbe finito con l'asportazione, alla più nera in caso di metastasi. Lo avrebbero accertato con l'intervento».

Qual è stato, in quelle ore, il suo stato d'animo?
«Diciamo che ho vissuto un tourbillon di stati d'animo, tutti concentrati in un tempo molto breve, perché grazie a Dio tutto si è svolto nel giro di pochissimi giorni, addirittura pochissime ore. Dunque, non ho avuto nemmeno il tempo per stare a pensarci sopra troppo. Anzi, credo che la mia apparente serenità, che probabilmente era incoscienza, sia servita in qualche misura a fare coraggio ai miei genitori, loro sì molto preoccupati».

E quando, a nodulo asportato, le hanno detto che era finito tutto lì?
«Sembrerà strano, ma una piccola défaillance fisica e morale l'ho avuta proprio nelle ore successive all'intervento. Ma i medici mi hanno detto che era normale. Difatti, ventiquattr'ore dopo, ho capito che mi era andata bene e, da quel momento, ho cominciato a guardare avanti: a quando sarei tornata a casa, a quando avrei ripreso a fare una vita normale, a quando sarei tornata in palestra. Questi pensieri positivi mi hanno aiutato ad affrontare serenamente il successivo, necessario ciclo di radioterapia. E a sopportarlo senza particolari disagi».

Ha mai temuto di non poter più tornare a giocare?
«Prima di andare sotto i ferri i medici erano stati chiari: se c'è metastasi che si estende ai linfonodi ascellari basta pallavolo, perché il braccio non avrebbe più riacquistato la forza e la funzionalità indispensabili. L'eventualità è stata scongiurata già durante l'intervento, perché è stato tolto ed esaminato il primo linfonodo, denominato linfonodo sentinella. Che ha dato disco verde».

Non si è mai sentita sola?
«Vuole scherzare? Ho avvertito intorno a me un affetto e una solidarietà inimmaginabili. La mia famiglia, papà, mamma, mio fratello, sono stati ovviamente un tutt'uno con me. Ma non soltanto loro: compagne di squadra, società, amiche, amici, giornalisti, tifosi, compresi quelli di squadre avversarie. A casa sono arrivati messaggi da tutto il mondo: giocatrici, team stranieri, la stessa Cev. Anzi, mi consenta di approfittare di questa chiacchierata per ringraziare tutti attraverso le colonne del suo giornale».

E l'ovazione del pubblico del Palasport, domenica?
«Da pelle d'oca. Bergamo mi ha fatto capire una volta di più quanto mi vuol bene».

E adesso?
«Ho ricominciato a frequentare la palestra, naturalmente a ritmo blando, senza pormi scadenze. Faccio pesi al mattino e, al pomeriggio, lavoro col gruppo con un programma differenziato. Non posso accentuare i movimenti del braccio, perché la ferita è sì cicatrizzata, ma in profondità fa ancora un po' male».

A quando il rientro vero e proprio?
«L'ho detto: non mi pongo scadenze. Sono certa, tuttavia, che sarò pronta a dare una mano alle mie compagne quando la stagione entrerà nel vivo. E sono altrettanto certa che la Foppa lotterà per gli obiettivi che rimangono dopo l'eliminazione dalla Champions. Domenica ho visto una bella Foppa. I tifosi abbiamo fiducia: vinceremo ancora».

Ildo Serantoni

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