Dopo Nessi, il centro di Bergamo perde un’altra insegna storica, chiuso il «Balzerino»

l bar pasticceria di via XX Settembre ha abbassato la saracinesca dal primo di luglio. La proposta di Amaddeo: «Valorizzare i marchi storici».

Il centro di Bergamo perde un’altra insegna storica, dopo l’annuncio del panificio Nessi che chiuderà l’attività dal primo di agosto.

Con l’inizio dei saldi estivi, passeggiando in via XX Settembre, l’attenzione cade sulla saracinesca abbassata di uno dei locali più conosciuti, il bar pasticceria Giulio Balzer, noto a tutti come il «Balzerino». Gli attuali gestori, raggiunta da tempo l’età della pensione, hanno pensato di cessare l’attività, che è chiusa dal primo di luglio. Non c’è un avviso appeso alla saracinesca ma, contattati telefonicamente confermano la decisione anche se preferiscono non commentare. Giù la saracinesca per sempre quindi. E non è un caso isolato. All’inizio di via XX Settembre, a pochi passi dalla chiesa di Santa Lucia, l’omonimo bar risulta chiuso da alcuni giorni e potrebbe trasformarsi in una nuova attività di somministrazione.

Alla base di molte chiusure c’è il mancato ricambio generazionale, condito dagli effetti della pandemia, che ha modificato le abitudini dei consumatori e non ha certo agevolato il settore. In molti casi ha pesato il caro affitti, che negli ultimi due anni è coinciso con una contrazione delle vendite. In questo caso le amministrazioni comunali non possono intervenire e tocca alla disponibilità e sensibilità dei singoli trovare il modo di andare incontro ai conduttori. Negli ultimi mesi a Bergamo il cassetto piange perché manca una componente fondamentale come quella turistica, anche se nelle ultime settimane qualcosa si sta muovendo. Stesso discorso per l’aumento dello smartworking, che ha comportato una riduzione del numero di clienti che si recano in bar e ristoranti per la pausa pranzo.

Sulla situazione generale apre una riflessione Roberto Amaddeo, consigliere comunale della Lista Gori con delega per Città Alta, che fa parte di una storica famiglia di imprenditori che da tre generazioni gestisce le attività partite con il ristorante «Da Mimmo»: dall’analisi emerge come il problema principale sia di natura generazionale, con le nuove leve che scelgono, anche su suggerimento dei genitori, di proseguire gli studi, si staccano dall’attività di famiglia e difficilmente, tranne rari casi, tornano in azienda una volta laureati. «Dobbiamo proteggere i negozi storici perché sono parte della nostra memoria – è il pensiero di Amaddeo –. Le motivazioni delle chiusure sono tantissime e alcune anche economiche.

La pandemia ha svolto un ruolo decisivo e il commercio ne è uscito stravolto e molto più fragile, ma il primo problema da affrontare è sicuramente dettato dal ricambio generazionale, con i giovani che spesso si ritrovano a fare altro. Per mio padre, ad esempio, avere una figlia insegnante o un figlio medico, era per certi versi più importante che avere qualcuno che continuasse la sua attività. Per fortuna, nel suo caso, di figli ne ha avuti sette e qualcuno ha proseguito nella ristorazione. Il secondo motivo è che i locali storici sono retti da un management solo familiare e non riescono quasi mai a far crescere un collaboratore con la stessa loro passione.

Cosa che invece, purtroppo, sanno fare le catene con la loro organizzazione aziendale, anche se non è calda come quella a presidio familiare. C’è anche una terza motivazione, dettata dal fatto che spesso ci si accorge che affittare il negozio rende di più che andare avanti dopo anni di grandi sacrifici. Nel campo della panificazione abbiamo esempi di imprenditori che hanno saputo mantenere il marchio e aprire più negozi, magari offrendo anche un servizio di somministrazione veloce». «Ma il passaggio vero che andrebbe fatto a livello nazionale è quello culturale – conclude Roberto Amaddeo –, cioè valorizzare i negozi storici e il loro marchio. In Francia hanno candidato a patrimonio Unesco i bistrot francesi e noi dobbiamo fare la stessa cosa con i caffè storici. A Parigi le insegne storiche vengono inoltre “adottate” dal Comune, che le protegge per mantenere alto il livello dell’offerta, sia qualitativa che di tradizione».

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