Proposta da GAMeC fino al 16 ottobre, a cura di Lorenzo Giusti e Sara Fumagalli, è il quinto appuntamento estivo con l’arte internazionale nel cuore di Città Alta, dopo le mostre di Gary Kuehn, Jenny Holzer, Daniel Buren ed Ernesto Neto.
Nel video «Time No Longer» firmato da Sala, su uno schermo flottante lungo 16 metri, un giradischi galleggia in una stazione spaziale, riproducendo un nuovo arrangiamento di «Quartet for the End of Time», la composizione realizzata nel 1941 dal musicista francese Olivier Messiaen, considerata la più celebre opera musicale composta in prigionia, nel caso specifico la baracca 27B del campo tedesco di Görlitz.
Nell’opera di Sala, tuttavia, il quartetto diventa un duo, incrociando le note di Messiaen con quelle di un sassofono che si ispira all’assolo che Ronald McNair, fisico, sassofonista e uno dei primi astronauti neri a raggiungere lo spazio, avrebbe voluto registrare a bordo dello Space Shuttle Challenger, se il veicolo spaziale non si fosse disintegrato pochi secondi dopo il decollo.
«Alla deriva nello spazio infinito – scrivono i curatori – mentre si susseguono 16 albe e 16 tramonti, il giradischi trova in questo modo una maniera per rimanere ancorato al tempo e alla storia, per quanto anch’esso prigioniero della propria solitudine, come McNair e Messiaen».
Nella sala, il buio è interrotto da bagliori di luce provenienti dal retro dello schermo dove alcune lampade, assecondando il ritmo della musica, illuminano gli affreschi alle pareti, tra cui la figura della Giustizia e i quattro angeli musici che sembrano dialogare con i quattro musicisti di «Quartet for the End of Time»: «Nelle parole di Sala – continuano i curatori – la video installazione e gli affreschi si definiscono come l’incontro di due “afterimages”: gli affreschi sono l’immagine residua di una civiltà del passato, il giradischi che fluttua nella stazione spaziale in assenza di gravità, è l’immagine residua proveniente dal futuro di un presente che non c’è più. Ed è nel presente, nel momento in cui facciamo esperienza di “Time no Longer” allestito nella Sala delle Capriate, che queste diverse dimensioni temporali – il passato, il presente e il futuro – entrano in dialogo».
Ricominciare alla Fine del Tempo
“Descrivere” la mostra è una cosa, ma suggerire che cosa si inneschi davanti alla poesia visiva e sonora di Sala è decisamente più complicato. Ciascuno vivrà la propria esperienza a modo suo. Per quanto mi riguarda, mi sento di procedere con la libera associazione di pensieri e immagini che ho sperimentato in prima persona. La prima corre a quelle circa 8000 partiture che sono riaffiorate dalle ceneri dei campi di concentramento e da altri luoghi di prigionia, e alle parole dello stesso Messiaen: «Ho scritto un quartetto per i musicisti e gli strumenti che avevo, per così dire, sotto mano. Avevo bisogno di pensare alla musica, di farla, per sentirmi vivo. Sono partito da un’immagine molto amata, quella dell’Angelo dell’Apocalisse che annuncia la fine del Tempo».
È nel Tempo – che Messiaen non a caso ha preteso fosse scritto con la “T” maiuscola – che ci proiettano i suoni e le immagini di Anri Sala, proprio quando il nostro di tempo, quello con la “t” minuscola, ancora una volta non è altro che caos.
Dalle note che risuonano in un campo di prigionia tedesco a quelle che coprono il frastuono delle bombe in un bunker ucraino, il passo è breve: la piccola Amelia, 5 anni, che intona la versione in lingua ucraina della colonna sonora di «Frozen»; la nota artista ucraina Khrystyna Soloviy che canta «Bella Ciao» in versione ucraina; la violinista di Kharkiv, Vera Lytovchenko, che suona la melodia di «Nich yaka misiachna» («Che notte di luna») in un rifugio antiaereo.
Nel bel mezzo del caos, la musica non è rifugio fuori dal Tempo e dallo Spazio. È più che resistenza: è linea che ci ricorda dove sta il bene e dove il male. Per chiudere con la musica, «Non si teme il proprio tempo/ è un problema di spazio» avvertiva la canzone «Linea gotica» dei C.S.I., parlando di una linea che aveva diviso la terra in due e dell’importanza di saper scegliere da che parte stare.
Su quella stessa linea, l’opera di Anri Sala sembra volerci collocare in bilico. Ed è così che grazie al suo giradischi in orbita, riaffiora in me anche l’immagine del funambolo francese Philippe Petit che, sulle note della prima «Gymnopédie» di Satie (mi riferisco al documentario «Man on Wire» di James Marsh) continua a camminare, un piede davanti all’altro, su un cavo steso (illegalmente) nel cielo azzurro tra quelle due Torri Gemelle che dall’11 settembre non esistono più.
Un “problema” di Tempo, dunque, ma anche di Spazio. Mi pare sia per questo che la poesia di Anri Sala ci manda in orbita. Per interrogarci su dove, in quale parte dello Spazio, vogliamo scegliere di rcominciare alla Fine del Tempo.