“Imiserabili” è uscito in Francia lo scorso novembre. È passato in concorso al Festival di Cannes a maggio 2019 ed è stato candidato agli ultimi Oscar come miglior film straniero solo tre mesi fa. Da oggi è disponibile in streaming: è possibile vederlo grazie alla nuovissima piattaforma Il mio cinemache è nata in questi giorni proprio per sostenere il cinema d’autore e sopperire alla chiusura delle sale in tutta Italia che sta mettendo in ginocchio il settore.
Nella nostra città il primo cinema ad aderire all’iniziativa è stato il Conca Verde che per promuovere la nuova piattaforma ha deciso di regalare a tutti coloro che acquisteranno la visione de “I miserabili” nella settimana dal 18 al 24 maggio, un ingresso omaggio per una proiezione dall’1 al 9 ottobre 2020, quando la sala sarà riaperta.
“I miserabili” è un film sul presente e racconta un tessuto sociale e un momento storico cruciali della nostra contemporaneità provando a farceli capire meglio. Eppure visto oggi sembra arrivare da un passato lontanissimo, sembra incentrato su cose che non ci riguardano e appartenere a un’epoca già dimenticata. Per esempio chi se li ricorda più eventi chiave del 2019 come le proteste dei Gilet Jaunes, la Brexit o gli esiti delle elezioni europee di un anno fa?
Il virus oltre ad aver messo in discussione le nostre priorità e stabilito un nuovo modo di vivere e comportarsi ha riscritto anche i temi del dibattito contemporaneo e dell’attualità. Motivo per cui vedere oggi un film come “I miserabili” può generare un effetto straniante e dare l’impressione di assistere a una storia passata (di moda). Nonostante ciò un film come quello dell’esordiente francese Ladj Ly è utile proprio per capire come molte delle questioni appartenenti alla vita pre-Covid siano ancora aperte. E come in fondo il modo in cui affrontiamo questa contemporaneità sconvolta sia la diretta conseguenza di come agivamo e pensavamo prima.
Il titolo del film richiama quello del celeberrimo romanzo di Victor Hugo ed è ambientato nel medesimo luogo in cui nel libro si svolgono le vicende della famiglia Thénardier: Montfermeil. In questo paesone a un’ora da Parigi, comune dell’Île-de-France e parte di quell’enorme conglomerato urbano ramificato attorno alla capitale francese, si intersecano le vite di tre poliziotti, i veterani Chris e “Gwada” e il novellino Stéphane, e quella dell’umanità varia che vive nei casermoni del famigerato quartiere di Les Bosquets.
Nel suo training day Stéphane assiste ai soprusi e alle violenze ordinarie dei suoi colleghi e ai consueti traffici dai quali sono regolati gli assetti del quartiere, fra taciti accordi e patti di non belligeranza atti a mantenere un “ordine” molto sui generis. Quando il drone di un ragazzino riprende per puro caso l’atto di violenza di uno dei tre agenti, recuperare la registrazione ed evitarne la diffusione diventa la missione prioritaria sia per i poliziotti sia per i piccoli boss del quartiere. Lo scoppio dell’odio sociale e delle rivolte in tutte le banlieue che il video potrebbe scatenare se diventasse di dominio pubblico, infatti, sarebbe controproducente per tutti.
Ladj Ly a Montfermeil ci è nato, cresciuto e ci vive ancora oggi. Come molti suoi concittadini è figlio di genitori immigrati – i suoi sono del Mali – ed è vissuto a contatto con persone di diverse etnie, culture e provenienze. Da quando ha iniziato ad appassionarsi al cinema, acquistata la prima videocamera, ha sempre ripreso la gente del suo quartiere, i loro volti, le loro storie e la loro vita. E “I miserabili” non è altro che la messa in forma cinematografica dei suoi ricordi e delle sue esperienze di banlieusard, da sempre immerso nel mondo della periferia.
Una periferia estremamente dialettica, bizzarra e singolare. Piena di contraddizioni, sfumature, complessità non semplici da cogliere, specialmente quando ci si rifugia negli stereotipi spesso utilizzati per raccontarla. “Quando un parigino si reca in periferia ha l’impressione di avventurarsi in Africa o in Iraq” dice il regista a proposito della percezione che la maggioranza dei francesi (e non solo) ha delle banlieue. Rendendo perfettamente l’idea di come la periferia somigli per certi versi a una frontiera; un luogo lontano, dove succedono cose terribili e si vive ogni giorno come se fosse l’ultimo. E invece, come mostra abilmente Ly, non solo questo luogo è parte integrante del tessuto sociale di una grande capitale europea, ma è anche l’essenza stessa della francité. E cioè talmente connaturato alla cultura del paese transalpino da essere luogo dell’azione di uno dei romanzi storici francesi più rappresentativi di sempre.
Il regista insiste molto su questa idea umanista di condivisione di uno spazio e di “nazione” come esperienza comunitaria. Lo dice efficacemente – anche se in maniera un po’ ingenua e certamente didascalica – nelle sequenze iniziali, girate dal vivo, nelle quali vediamo alcuni dei giovanissimi protagonisti partecipare sugli Champs-Élysées ai festeggiamenti per la vittoria della Francia nella Coppa del mondo di calcio del 2018. Fuori dal quartiere, con la maglia della nazionale e in mezzo a tutti gli altri, si confondono e perdono in mezzo a una folla festante, unita e in armonia. Quasi un sogno, una speranza, uno sguardo verso il futuro carico di fiducia.
Sì perché la realtà è molto diversa. E l’ingresso a Montfermeil, da cui per tutto il film non usciremo più, ce lo dice molto chiaramente. Lì dentro questa idea utopica di comunità si frantuma in un universo di fazioni, frizioni e opposizioni politiche, religiose, razziali e culturali aventi come unici comuni denominatori la miseria e l’odio per i poliziotti. E quest’ultimo risulta più come un fattore identitario che ideologico: l’identificazione del nemico nella polizia, come proiezione e sintomo evidente e prossimo di uno Stato percepito come assente e menefreghista nei confronti della periferia, diventa quasi una necessità per tirare avanti. E per questo Ly, sapientemente, non cede alla facile soluzione di dividere buoni e cattivi mettendoli su fronti opposti. Spartisce responsabilità e colpe fra agenti e banlieusard, lasciando intatta la complessità del tessuto sociale che racconta.
Non può sfuggire in questo senso – e in fondo il film non è certo costruito sulle sfumature – il riferimento alle sollevazioni di piazza del 2019 francese. I Gilet gialli nella loro totale eterogeneità contengono e contemporaneamente condividono molte delle istanze che la periferia reclama da decenni. Ma anche questioni calde e irrisolte come quella razziale e legata all’inclusione, alla condivisione e al rispetto reciproco, rientrano nell’universo simbolico e metaforico di cui il quartiere di Les Bosquets è incarnazione.
Centro e nord africani, gitani, gwada (nel senso di guadalupesi, gli abitanti delle Antille, molti dei quali diventati i primi agenti di colore della polizia francese) hanno ognuno un loro territorio, un loro referente politico e religioso. Come il “sindaco” o il kebabbaro che compaiono nel film, soggetti atti ad amministrare il quartiere secondo logiche e regole non scritte su cui si reggono i fragili equilibri della comunità. Tutti talmente dominati e rispettosi oltre ogni limite a queste norme da rendersi assimilabili al principale e comune nemico: la polizia. E finendo per agire esattamente come essa.
Per questo motivo, in ultima istanza, pur non giudicando nessuno – né il poliziotto razzista, né il suo collega dal volto umano, né il saggio kebabbaro, né l’intrigante “sindaco” – il regista assolve veramente solo i bambini. Quelli che festeggiano la Francia campione del mondo fregandosene delle differenze e che – simbolicamente – riescono a vedere dall’obiettivo del loro drone, tutto, compreso il quartiere, da una prospettiva alta, esterna e superiore. L’unica in cui ogni cosa, anche la più sporca, subdola e violenta, appare piccola e insignificante rispetto a tutto il resto.