Soltanto tre mesi fa, in questi giorni, si stava svolgendo l’ultimo festival cinematografico dell’era pre-covid: la Berlinale 2020 – sembra passata un’eternità. Ma proprio a Berlino era stato premiato, fra gli altri, un film italiano la cui uscita in sala, prevista per lo scorso aprile, era stata bloccata a causa dello scoppio della pandemia. Oggi quel film, “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo, ha trovato una nuova modalità di distribuzione grazie a MioCinema, la neonata piattaforma per promuovere il cinema d’autore che consente la visione in streaming.
Promossa anche dal Conca verde MioCinema è facilissima da utilizzare, basta registrarsi, selezionare il film desiderato e pagare il biglietto. In attesa della riapertura delle sale e di una programmazione adeguata a supportarne lo sforzo (cosa non scontata andando verso l’estate, da sempre la stagione off dell’anno cinematografico), sembra il tentativo più concreto per salvare il settore e un modo per dare un segnale di resistenza.
Damiano e Fabio D’Innocenzo, che firmano i loro film come “fratelli”, per la precisione sono gemelli, classe ‘88 e vengono dalla provincia di Roma. Il loro primo film, “La terra dell’abbastanza” (2018), era affondato nella periferia romana: ne raccontava l’ordinaria violenza e la quasi inevitabile seduzione per una criminalità spaccona ed eccessiva. Con “Favolacce” invece, pur restando ancorati al tessuto urbano della suburbia della Capitale, i due fratelli trasportano l’ordinario verso lo straordinario e cambiano completamente registro. Dimostrando una versatilità non scontata e tutt’altro che semplice da ottenere, soprattutto per registi giovani come loro.
Il film, che come dicevamo ha vinto l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura, è in effetti molto “scritto”. Cioè pensato, impostato e costruito soprattutto in fase di stesura dello script. Sono gli stessi registi a confermarlo, dicendo di avere avuto la sceneggiatura sul tavolo per anni e di aver trovato il modo di metterla in scena solo di recente. Eppure dimostra di reggersi anche su una messinscena complessa, rigorosa. Di essere supportato da una regia solida e studiatissima, talvolta al limite del compiacimento ma capace di rendere perfettamente il senso di sospensione della realtà nel quale è immersa la storia.
Come in una favola il racconto è introdotto da una voce narrante che accenna al ritrovamento di un diario. Un diario abbandonato con dentro una storia da raccontare. Forse una storia vera o più probabilmente no – in ogni caso non molto ispirata come afferma il narratore. Qualcosa di simile a un fatto di cronaca accaduto nella periferia sud di Roma, nei pressi di Spinaceto. Al centro alcune famiglie, genitori ottusi e figli preadolescenti geniali con cui non vanno d’accordo, e un insegnante, brillante e amato dai ragazzi, ma con un’indole perversa.
Non è il caso di dire di più riguardo alla trama per non guastare la visione. Ma anche volendo, descrivendola tutta, non direbbe comunque abbastanza del film. Perché proprio come nelle favole, anche quelle nere, sono le atmosfere, i caratteri dei personaggi, le loro sembianze e i loro comportamenti a rendere peculiare il racconto. Ed è proprio qui che “Favolacce” fa centro. Senza mai mostrare nulla di eccessivamente sconvolgente, violento, controverso o scioccante riesce a rendere tutta la straordinarietà degli eventi che mostra. E ad affondare una storia a tinte foschissime in un universo di astrazione, a tratti grottesco, che ci permette di accostarci più facilmente ai fatti terribili cui assistiamo.
Non è la periferia degradata, violenta e corrotta de “La terra dell’abbastanza” quella di “Favolacce”. Al contrario è una provincia quasi mai vista nel cinema italiano. Fatta di eleganti villette bi o tri-familiari immerse nel verde, con l’erba ben tosata, lo steccato bianco e la veranda con il tavolo per cenare all’aperto nelle sere d’estate. Tutt’intorno la campagna con campi incolti e piccoli pascoli, poco distante, invece, il mare. Uno scenario quasi idilliaco che ricalca un certo immaginario derivato da molta letteratura nord americana e dal cinema hollywoodiano classico. Quelli della provincia sana e innocente, lontanissima dalla corruzione delle metropoli e ultimo baluardo di una certa idea di moralità.
Come in un romanzo di Raymond Carver però dentro a tutto questo si nascondono sentimenti oscuri ed esiziali e tutto è sovrastato da un’aria funerea cui sembra impossibile sottrarsi. I genitori del film, tutti all’incirca quarantenni, sono una sorta di piccoli mostri attaccati ai beni materiali (l’auto di seconda mano, la piscina smontabile per il giardino, le polo firmate), insoddisfatti del proprio lavoro e la cui unica aspirazione sembra essere quella di mostrare una vita più agiata di quella del vicino di casa. Uno spaccato sociale non solo degenere e respingente ma anche sottilmente inquietante.
In questo senso la vita di provincia è fotografata per quello che è: una resa, un ripiego. Una condizione esistenziale dentro cui a dominare sono gli istinti più bassi e meschini. Una situazione dalla quale non esiste emancipazione. Gli unici tentativi di andarsene, di cambiare, di provare a affrancarsi sembrano non portare da nessuna parte: o trasferirsi a casa di un parente in un posto forse ancora peggiore come Amelio, o tentare una nuova vita con l’illusione che lavorare come aiuto dell’aiuto pizzaiolo garantisca “una cifra di soldi” come il fidanzato di Vilma.
Il panorama umano – non composto da criminali, grandi o piccoli boss, spacciatori o disagiati di qualche tipo – è formato dagli esponenti di quella classe media (benestante e apparentemente realizzata) che nel nostro Paese rappresenta forse la percentuale più alta della popolazione. Quella che non abita nei grandi centri urbani e nei sondaggi politici viene identificata (non solo qui da noi) come la “base” dei populismi in ascesa di questo momento storico. Persone che non riescono a realizzare le loro aspirazioni, nonostante le possibilità economiche e una vita sgravata da qualsiasi ostacolo particolare. Donne e uomini che non sanno quello che vogliono perché probabilmente non lo sanno immaginare.
Proprio come in una fiaba però, qualcuno che sa immaginare – anche in maniera esageratamente sfrenata – c’è. E sono i loro figli. I ragazzini del film, veri protagonisti e motori della storia, che sembrano l’esatto contrario dei loro genitori. Intelligenti, brillanti, furbi e con le idee chiare. Fin troppo. Speculari agli adulti ma come loro immersi in una sorta di apatico abbandono emotivo, ne osservano quasi senza emozioni i comportamenti. Uno sguardo che è qualcosa in più di una ricognizione dello squallore e della fragilità etica e morale cui assistono. Siamo dalle parti di una vera e propria presa di coscienza della crudeltà, della depressione e della violenza sotterranea, dalle quali sono circondati e segnati nel loro destino.
E allora escogitano la più terribile delle vie d’uscita da quell’impasse. Capaci, come si diceva, di immaginare, s’inventano un mondo diverso in cui rinascere. Magari con genitori nuovi, un altro paesaggio intorno e una vita che non assomiglia a quella di prima. La via scelta è la più terribile, spaventosa e inimmaginabile. Ma come nelle favole nere, e come per il piccolo Edmund nel finale di “Germania anno zero” di Rossellini, forse quella via è l’unica che possa funzionare davvero.