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Matteo Defendini, le persone al centro dell’architettura

Articolo. Architetto bresciano, nel 2021 è stato selezionato tra i migliori architetti under 40 europei grazie alla progettazione della Scuola Girasole di Ikengua e nel 2022 è stato ambasciatore del design italiano a Riyad. Ecco la nostra intervista

Lettura 7 min.
Premio europeo under 40

Le persone sono ciò che rendono viva e unica un’opera. Sono loro a riempirne gli spazi, a sfruttarne le geometrie, a goderne le forme, non solo in modo passivo, ma funzionale. Le persone sono ciò che rendono ricche le altre persone, mescolando le proprie idee, le proprie conoscenze e i propri punti di vista. Può accadere in un percorso formativo, così come in un team di lavoro. Può accadere oltre confine, oppure vicino a dove siamo cresciuti e diventati uomini e donne, persone appunto.

Parlare con Matteo Defendini, architetto bresciano, under 40 (di gran lunga under 40), è stato come un viaggio. Uno di quei viaggi che lui stesso ama fare appena può e che colorano con pattern differenti la mappa del mondo sul sito web del suo studio Defendini Architects. Che sia per studio, per lavoro, o per pura passione, sempre con al centro le persone. «Viaggiare apre la mente e allo stesso tempo ti fa conoscere te stesso. Chi vive in un bel castello tutta la vita non si accorge di quanto sia fortunato perché non ha esperienza con realtà e contesti differenti».

ST: Allora, Matteo, raccontami un po’ di te. Dimmi subito la tua età, altrimenti se la diciamo dopo tutte le esperienze e i successi già ottenuti, sarà difficile crederci.

MD: Ho 32 anni, anche se me ne sento di più. Ho frequentato l’Accademia dell’Architettura di Mendrisio, in Svizzera, dove ho completato sia Bachelor che Master Degree, oltre che un Erasmus presso l’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris-Belleville. Durante la mia formazione, ho conosciuto docenti di caratura internazionale e soprattutto già attivi sul campo. Ho imparato molto da architetti provenienti da nazioni e culture diverse, ognuno con una propria idea di architettura. Ad esempio Mario Botta, uno dei più grandi architetti al mondo, è stato il mio docente di laurea. Due motti guidavano la mia formazione in accademia: «Architetti non si nasce, si diventa» e «Learning by doing». Il primo può sembrare semplice, ma richiede tempo per essere metabolizzato. Quando studi credi di essere pronto ma poi, quando metti piede in cantiere, ti accorgi che il lavoro è molto complesso, e che richiede tempo. Di solito un architetto matura tra i 45 e i 50 anni. «Learning by doing» ha guidato i miei primi progetti in Africa, nati da coincidenze della vita. Studiavo ancora, ma ho potuto fin da subito sperimentare il contatto con l’attività locale, ho potuto sporcarmi le mani e anche sbagliare, mentre facevo qualcosa di tangibile, mentre vedevo il progetto su carta diventare manufatto architettonico. E questa è la più grande soddisfazione di un architetto. Durante i primi progetti, sperimenti, e capisci che puoi plasmare e creare qualcosa che verrà poi realizzato per essere vissuto non da te stesso, ma da altri. L’architettura è un processo demiurgico, anche pericoloso, perché se fatto male, si ritorce contro le stesse persone a cui è dedicato. Ci vogliono pazienza, esperienza, professionalità, e competenze.

ST: Le tue parole denotano passione per quello che fai e anche sensibilità nei confronti dello scopo di questa professione. È qualcosa che hai sempre avuto?

MD: Vengo da una famiglia in cui nessuno è architetto. È una passione che ho sempre sentito mia. Nel garage dei miei ho ancora i modellini di legno, che assemblavo dopo scuola, invece che andare a giocare fuori. Tutti abbiamo un’indole innata. Io ho sempre avuto una vena creativa, fin da piccolo, così ho dapprima frequentato il liceo artistico e poi ho incanalato la mia inclinazione nel settore dell’architettura.

ST: Passione che è diventata presto professione.

MD: Dirigo la società di progettazione Defendini Architects Srl, con sede a Brescia. Ci occupiamo principalmente di tre aree: architettura, urbanistica e design. L’architettura dedicata al privato copre sia nuove costruzioni che ristrutturazioni in campo residenziale, commerciale o industriale. Nel pubblico, lavoriamo a contatto con le comunità, ad esempio nel rifacimento di piazze storiche, parchi o edifici pubblici. Il mondo del design, invece, può riguardare sia gli interni che prodotti, come ad esempio un set di lampade particolari.

ST: Ecco, allora ti faccio una domanda “all’italiana”, che so che non ti piace. Qual è la vostra specializzazione?

MD: In Svizzera mi hanno educato ad essere architetto generalista, ovvero una figura professionale capace di affrontare ogni nuovo progetto come una sfida, quindi in grado di trattare ogni tipo di spazio. Nel settore della progettazione, secondo me, la specializzazione è un’idea sbagliata. Rifiuto di specializzarmi in un campo specifico. Per me la vera specializzazione è trattare ogni progetto come un unicum. Per essere in grado di farlo, siamo una squadra di professionisti: iniziamo un progetto sempre dalle persone e dal contesto dove l’opera andrà ad inserirsi. L’architettura come unicum non riguarda soltanto il costruito, ma soprattutto le persone e il loro spazio di vita. È un approccio attento sia all’utente finale che al contesto. Io non riesco a progettare senza aver prima visto con i miei occhi il contesto, che sia vicino o lontano da casa.

ST: Questa è una visione che viene dalla tua esperienza all’estero. Sul sito della tua società, mi ha colpito la mappa con i tuoi viaggi. La legenda recita «formazione, lavoro, viaggi». Ogni esperienza oltreconfine ti ha lasciato qualcosa.

MD: Viaggiare è la formazione più grande che ho avuto. Vengo da Dello, un paesino piccolo (5.000 abitanti), dove ho vissuto tutta l’infanzia e l’adolescenza, a parte frequentare il liceo a Brescia. Sono sempre stato curioso di natura, quindi dai 18 anni ho iniziato a viaggiare, per studio, ma soprattutto per vedere dal vivo le architetture dei libri. Un’architettura va vissuta, bisogna entrare negli spazi, respirare l’aria del suo ambiente, del suo contesto. Ho passato circa dieci anni all’estero: prima Svizzera, poi Francia, Africa, Australia, dove ho fatto la vera gavetta a Melbourne, e poi la Colombia dove ho lavorato come freelance in collaborazione con altri studi. Ho viaggiato molto in paesi in via di sviluppo, ho imparato tre lingue (francese, inglese, spagnolo) e ho imparato anche ad apprezzare di più l’Italia e i suoi aspetti, che prima davo per scontati. Lancio un appello ai giovani: fate la gavetta, fatela consapevolmente. Viaggiate, fate esperienza, e poi tornate. Partire per tornare, non per partire e basta. Non fuggite, ma abbiate come obiettivo quello di tornare per riversare sul vostro territorio quanto appreso fuori.

ST: Africa, Tanzania. Qui hai progettato la Scuola Girasole di Ikengua, grazie alla quale sei stato scelto come il più giovane tra i migliori architetti under 40 europei del 2021, e che rispecchia il motto del vostro studio: l’architettura non riguarda solo il costruito... Innanzitutto, riguarda le persone e il loro spazio di vita.

MD: Per me è essenziale il rispetto del contesto in cui un’architettura si inserisce. Per questo sono andato personalmente in Tanzania e ho parlato con la gente locale, mi sono informato sui materiali e le tecnologie del luogo. Dovevamo progettare un campus scolastico in mezzo alla savana. Quando non ci sono riferimenti contestuali, come in mezzo all’oceano, o in altri territori sconfinati, non è facile e si ha paura di distruggere il bellissimo contesto in cui ci si trova. Eppure, l’idea era già lì e parlava da sola. Ho pensato al fiore più grande che questi bambini avessero mai visto. Così è nata la scuola di Ikengua, a forma di girasole, in mezzo ai girasoli. C’è una forte influenza del territorio locale, ma anche del mio, ovvero del contesto mediterraneo, con archi, volte e cupole. Spesso lo diamo per scontato, ma camminare sotto un portico in una piazza è bellissimo, ed ammalia migliaia di turisti esteri che visitano l’Italia. In quest’opera ho coniugato il know-how locale con la mia indole e la mia poetica. E quando uno fa architettura deve metterci poesia.

ST: Dopo l’Africa, hai fatto esperienza in Oceania e in Sud America.

MD: In Australia, mi sono occupato della casa dello studente di Melbourne mentre poi, per coincidenze della vita, ho potuto partecipare alla progettazione di uno stadio per i giochi panamericani in Colombia. È stato un progetto velocissimo, per esigenze di consegna, e mi sono reso conto della leggerezza burocratica. In Italia, sei mesi di progetto e un anno di realizzazione sono tempi impensabili. Sempre in Colombia, ho lavorato ad una casa a Dapa, per una coppia che ricercava l’architettura italiana. Il Made in Italy è apprezzato sempre. L’anno scorso sono stato designato dalla Farnesina e dal ministero della cultura come ambasciatore del design italiano a Riyad. Mi sono trovato in un nuovo contesto, diverso da tutti quelli in cui ero stato. Quando succede, mi viene un po’ di nostalgia, sia delle opportunità lavorative, sia delle bellezze tipiche, come la frutta tropicale, che così buona non si trova da noi. Però la vita è fatta di momenti belli, momenti nostalgici, novità e sfide.

ST: E dopo le esperienze all’estero, il ritorno e la professione in Italia. Nostalgia delle esperienze oltreconfine, ma anche voglia di farle fiorire in Italia nella tua terra d’origine.

MD: L’architetto del Novecento Carlo Scarpa, forse il più grande architetto italiano, diceva ai suoi studenti che per aver successo bisogna avere una buona idea e poi saperla sviluppare. Pensare e fare sono entrambi essenziali, e i miei lavori sono influenzati da tutte le esperienze fatte all’estero. Ad esempio, vivendo contesti prossimi all’equatore, ho imparato a non sottovalutare l’aspetto bioclimatico, anzi a dargli la giusta importanza e la priorità rispetto all’estetica. In quest’ottica, presenterò un progetto per la riqualificazione del gasometro di Brescia, in occasione della mostra «Visioni per un futuro presente. Città, ambiente, comunità» presso il cinema teatro Astra a Brescia. Ho immaginato la torre in legno più alta d’Italia, non per esibizionismo, ma per mostrare un modo differente di fare architettura, da un punto di vista costruttivo e bioclimatico, dove acqua, sole e vento sono utilizzati e convertiti in risorsa all’interno di un edificio polifunzionale dedicato ai giovani.

ST: Sostenibilità in modo concreto, nell’esaltazione delle risorse, nel dare importanza al contesto sociale, e nella scelta dei materiali. A proposito di materiali, hai delle linee guida che segui sempre?

MD: No, perché credo che fare i progetti con lo stampino non sia rispettoso nei confronti del territorio. I materiali seguono un po’ l’ambiente in cui devono inserirsi. Un progetto in montagna richiama l’uso di pietra e legno, mentre uno in Pianura Padana il mattone a vista. Ovviamente bisogna sempre accogliere le richieste del committente, ma cercare di renderle compatibili con il contesto ambientale e climatico.

ST: Parlando di contesto sociale in Italia. Centro storico e periferia delle nostre città: come vedi evolversi la loro importanza?

MD: È un argomento che mi sta molto a cuore, sia perché lavoro in Italia sia perché vengo da un paesino. Recentemente ho riscoperto il valore dei centri storici e infatti ho ristrutturato casa proprio nel centro di Brescia. Il centro storico delle città italiane ed europee per me è la creazione più complessa della mente umana, più del telefono o del computer. È una stratificazione di discipline, competenze e normative che nessun’altra struttura ha e che si sono tramutate negli anni in bellezza. Questa è la magia dei nostri centri storici, che negli ultimi anni sono stati resi ancora più belli, sulla spinta di un orgoglio identitario, attirando molta gente a viverci. È una controtendenza a quello che succedeva negli anni 90, dove la gente preferiva fuggire dalla città alla ricerca di spazi ampi e di tranquillità, mentre i centri storici erano presi d’assalto da turisti o da immigrati che cercavano dimora vicino ai servizi. Ogni città dovrebbe custodire il proprio cuore, ma senza dimenticare le periferie, perché sono parte integrante della città, e vanno preservate e curate.

Sono le dieci di mattina. L’architetto Matteo Defendini ha molti progetti a cui dedicarsi, e questa chiacchierata sembra aver acceso ancora di più il suo entusiasmo per una professione che, con le giuste motivazioni, può dare molto alle comunità. Per citare le sue parole, per diventare architetto ci vogliono pazienza, esperienza, professionalità, e competenze. Aggiungerei poesia, e un forte credo.

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