Sheghi Papavero («Papavero» è la traduzione in italiano del cognome) è una donna iraniana, nata a Teheran, che dal 2011 vive a Bergamo. Da quando è iniziata la protesta in Iran contro il regime degli ayatollah, è una delle principali attiviste che tengono alta l’attenzione nella nostra città, che da anni ha accolto una comunità iraniana molto numerosa.
Il regime iraniano ha usato l’esecuzione di Mohsen Shekari come una carta vincente. Perché dopo tre giorni di proteste, con uno sciopero generale, e la presenza di milioni di manifestanti nelle strade, il regime ha capito che è alla frutta. Mohsen Shekari è stato condannato a morte e giustiziato. Purtroppo, dopo aver appreso questa triste notizia, la gente è tornata a casa e ha iniziato a lavorare sui social e in Internet per denunciare e fermare le esecuzioni. Questo alla luce del fatto che non deve rinunciare al proprio obiettivo principale, che è restare in strada e continuare le proteste.
Gli iraniani devono ricordarsi che questa è una gara di resistenza, non una gara di velocità. I manifestanti dovrebbero concentrarsi su sé stessi e sui loro sentimenti, tenendo viva l’indignazione che in questi mesi ha alimentato le proteste. Lo scopo di queste esecuzioni è far crollare psicologicamente i manifestanti. Quella che è in atto è una pesante guerra psicologica. Quando i manifestanti sentono le notizie delle esecuzioni provano rabbia e tristezza. Vanno in strada e vedono che c’è il regime, si chiedono perché ci sia il regime e perché nessuno possa fare niente. La sensazione di sconfitta è una sensazione di disperazione. Ma mai come ora è necessario reagire.
Per quarant’anni, il popolo iraniano ha affrontato un regime che parla principalmente alla gente con il linguaggio delle esecuzioni e degli omicidi, e da diversi anni ha aumentato la portata della sua violenza. La Repubblica islamica ha stabilito un nuovo record di esecuzioni negli ultimi anni, con una media di almeno una persona al giorno. Il pensiero che ogni mattina al risveglio qualcuno sia stato giustiziato è molto inquietante per un essere umano. Questi fatti (le esecuzioni, ma anche gli arresti e le sparizioni) ci ricordano ogni giorno che tipo regime ci sia in Iran. Un sistema che uccide intenzionalmente, più di ogni altro sistema al mondo, per motivi ideologici, utilizzando la violenza e la tortura e non avendo paura di uccidere i bambini, i giovani e gli anziani. A tutti gli effetti è una Repubblica basata sulle esecuzioni.
«Esecuzione», «lapidazione», «tribunale» e «giudice» sono parole che un iraniano conosce fin dall’infanzia e la maggior parte delle persone ha vissuto un’esperienza di violenza personale (su di sé o su qualche persona vicina). La notizia dell’esecuzione di Mohsen Shekari ha sicuramente attirato l’attenzione di molte persone, ma purtroppo Mohsen non è il primo e non sarà l’ultima fra le vittime.
Mohsen Shekari, condannato a morte il 18 novembre, è stato giustiziato giovedì mattina, 8 dicembre. Era un giovane di 23 anni, che amava giocare con i videogiochi e preparare il caffè per i suoi amici. Quando ha saputo di essere stato condannato a morte, ha detto ai suoi compagni di cella: «La condanna a morte è stata data solo per spaventarmi». Sfortunatamente, il regime iraniano è più brutale di quanto possa immaginare un ventitreenne. Sui social è stato diffuso un video che mostra la famiglia e i parenti di Mohsen Shekari davanti alla sua tomba. Uno dei parenti urla in segno di protesta: «Combatti, non stancarti, resisti e tieni la testa alta. Anche se veniamo uccisi uno per uno in questo modo, non torniamo a casa finché questo regime non se ne va».
L’esecuzione di questa sentenza è stata accolta con un’ampia reazione da parte dei cittadini iraniani e stranieri sui social network. Sono intervenuti anche molti artisti e atleti. Gohar Eshghi, la madre di Sattar Beheshti, un blogger operaio ucciso nel 2012 dalla Repubblica islamica, ha scritto su Twitter: «Figlio mio, sono orgogliosa di te. Sei un simbolo del popolo oppresso dell’Iran. Sei l’espositore del crimine nudo della Repubblica islamica contro l’umanità. Come madre, sento il bruciore di stomaco, ma tu e i giovani come te salveranno l’Iran con un pezzo della vostra vita. Il tuo nome non sarà mai cancellato dalla storia dell’Iran». Inoltre, questa coraggiosa donna iraniana ha pubblicato un video rivolto al leader della Repubblica islamica: «Spero che Khamenei veda morto Mojtaba (il figlio di Khamenei, ndr), il dittatore che ordina l’uccisione della nostra gioventù».
In risposta all’esecuzione di Mohsen Shekari, Tarane Alidousti, attrice di cinema e teatro, ha postato sul suo profilo Instagram: «Qualsiasi organizzazione internazionale che osserva questo spargimento di sangue e non agisce è una vergogna per l’umanità». Anche Ali Karimi, ex calciatore della nazionale iraniana e figura dell’opposizione della Repubblica islamica, ha pubblicato una storia sul suo profilo Instagram: «Aspettatevi la vendetta dell’esecuzione di Mohsen Shekari». David Jaffe, il designer del videogioco «God of War», ha scritto in un tweet che chiunque si opponga ai leader della Repubblica islamica è un eroe. E ha aggiunto: «Mohsen, dormi in pace e con forza. Spero che il tuo coraggio, la tua forza e la tua attività ispirino milioni di persone».
Forse molte persone non lo sanno, ma dall’inizio delle proteste in Iran almeno 15 persone sono state giustiziate nella provincia del Sistan e Baluchistan, senza andare in tribunale o avere avuto accesso a un avvocato, nel silenzio delle comunità internazionale. Pochi giorni prima dell’esecuzione di Mohsen Shekari, la Repubblica islamica ha giustiziato con l’appellativo di «criminali» quattro prigionieri, che avevano costretto un ufficiale della Forza Quds di nome Mansour Rasouli a confessare in un video di aver pianificato attentati in Europa. Un crimine che non ha incontrato nessuna reazione degna di nota da parte della comunità politica, delle organizzazioni dei diritti umani e di qualsiasi tipo di organizzazione internazionali, in particolare delle istituzioni affiliate alle Nazioni Unite. Questo silenzio ha contribuito all’esecuzione di Mohsen Shekhari.
Mohsen Shekari è stato accusato di infondere paura «estraendo un coltello, minacciando e aggredendo» un Basij, ovvero un miliziano della forza paramilitare iraniana. Per questo motivo, è stato impiccato con l’accusa di condurre una «guerra contro Dio». Un’accusa che porterà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane ad altre condanne a morte.
Dopo Mohsen Shekari, la seconda vittima è stato Majid Reza Rahnavard . Il tribunale rivoluzionario ha condannato a morte questo manifestante l’8 del mese di Azar (il 12 di dicembre, ndr), cinque giorni dopo l’emissione dell’accusa. La Magistratura della Repubblica islamica ha accusato Majid Reza Rahnavard di aver «aggredito con arma fredda» due agenti Basij. Rahnavard non ha avuto l’opportunità di avvalersi di un avvocato di sua scelta e non gli è stata data la possibilità di difendersi in tribunale. La famiglia della vittima ha dichiarato di essere stata chiamata dagli esecutori alle sette del mattino. «Ci hanno svegliato e detto di andare al cimitero. Ci hanno detto: “abbiamo giustiziato vostro figlio e lo abbiamo seppellito noi stessi”».
Non è la prima volta che la Repubblica islamica seppellisce i corpi dei prigionieri politici giustiziati senza informare le loro famiglie. L’esecuzione di Majid Reza Rahnavard è avvenuta nella mattinata di lunedì, a soli 23 giorni dal suo arresto. Dopo l’esecuzione della sentenza, il Presidente della Corte ha ringraziato la polizia e gli agenti di sicurezza per aver «ristabilito l’ordine e la sicurezza e per aver trattato con rivoltosi e trasgressori».
Secondo le ultime statistiche dell’Organizzazione iraniana per i diritti umani, finora sono stati condannati a morte almeno 32 manifestanti, anche se per ora non tutte le sentenze sono state eseguite. Hamid Qarahasanlou e Saman Yassin sono i nomi di due dei detenuti recentemente accusati di fare una «guerra contro Dio». Le famiglie di questi due cittadini hanno chiesto alla gente di essere la voce di Hamid Qarahasanlou e Saman Yasin e di non permettere che vengano giustiziati.
La madre di Saman Yassin (Saidy), un rapper di Kermanshah arrestato, si è rivolta alla gente, alle organizzazioni per i diritti umani e alla comunità internazionale in un video pubblicato sui social media: «Prendetevi cura di mio figlio in modo che non venga giustiziato. Mio figlio è un artista, non è un criminale». Hamid Qarahasanlou, invece, è un radiologo accusato e condannato a morte insieme ad altri quattro manifestanti per essere stato coinvolto nell’uccisione di un membro Basij durante le proteste. Anche sua moglie, Farzaneh Qarahasanlou, è stata condannata a 25 anni di carcere. La famiglia di Hamid Qarahasanlou, con l’aiuto della gente, ha chiesto di impedire l’esecuzione della sua condanna a morte.
Il regime iraniano ha giustiziato per anni chi si opponeva al governo e ha portato le esecuzioni capitali all’interno delle case iraniane, facendole diventare quasi una cosa normale, quotidiana. In 43 anni, decine di migliaia di persone sono state uccise dalle autorità della Repubblica islamica per vari motivi e in vari modi. Nel frattempo, il mondo ha fatto grandi progressi nel rispetto dei diritti umani, la pena di morte è stata abolita in 139 paesi e il numero delle esecuzioni nei pochi paesi rimasti è diminuito. L’unico governo che ha seguito la strada opposta, e ha ucciso più persone pro capite di qualsiasi altro paese al mondo, è stato la Repubblica islamica dell’Iran.
Non c’è scusa che la Repubblica islamica non abbia utilizzato per il ricorso all’esecuzione: dai massacri politici del primo decennio della rivoluzione, compiuti con il pretesto di preservare il sistema, all’enorme elenco di “crimini” per i quali è prevista la pena di morte. Dall’omicidio, al terrorismo, allo spaccio di droga, al sesso extraconiugale e all’opposizione al sistema, o al libero pensiero. Il volto della Repubblica islamica è noto a tutto il mondo: un regime brutale, violento, che uccide uomini, bambini e anziani. Un regime che non è vincolato da alcuna legge e non si preoccupa di violare i diritti umani.
Allo stesso tempo, l’esecuzione di Mohsen Shekari e Majid Reza ha provocato un’ondata di reazioni all’interno e all’esterno dell’Iran: funzionari mondiali e attivisti politici avevano espresso preoccupazione per l’inizio dell’esecuzione dei manifestanti e per la vita dei prigionieri politici. Molti membri del Parlamento europeo, ministri e parlamentari dei paesi europei hanno cominciato ad essere «tutori politici» dei prigionieri iraniani. Cosa significa?
Quando un membro del Parlamento europeo accetta il patrocinio politico di un prigioniero politico iraniano, ciò non assume un aspetto giuridico, ma un aspetto politico e sociale. Il tutore politico attua una pressione sul proprio governo e sul governo dittatoriale che ha imprigionato la persona patrocinata per il rilascio di quest’ultima. L’importanza è enorme: maltrattare o giustiziare un prigioniero politico sotto patrocinio danneggia a livello d’immagine il regime dittatoriale, molto più che rispetto al maltrattamento di un prigioniero politico non patrocinato.
Ad esempio, Clara Bönger, rappresentante del Partito della Sinistra tedesca, ha dichiarato: «Sono inorridita dalla brutalità e dalla violenza del regime dei mullah. Per questo motivo, ho assunto il patrocinio politico di Mohammad Qabadlo, per fare qualcosa per salvargli la vita e la libertà come membro del parlamento federale».
Questi piccoli gesti, come togliere l’Iran dalla commissione sullo status delle donne o convocare l’ambasciatore iraniano a Roma – come ha promesso di fare il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani, non appena l’ambasciatore si sarà insediato – sono semi di speranza per la libertà dei prigionieri politici, dei condannati a morte e di tutto il popolo iraniano. Donna vita libertà!