Ai due litiganti resta solo il ruolo di stampella

ITALIA. Terzo Polo, ultimo atto. Sta per concludersi la breve vita di quello che appariva come un grande progetto: dare una casa a tutti coloro che non vogliono stare né con Elly Schlein né con Giorgia Meloni, i riformisti e liberaldemocratici, né di destra né di estrema sinistra, insomma, cattolici e laici, europeisti e atlantisti, amici più dell’impresa che di Landini e della Cgil.

Ma ormai la speranza si sta rapidamente spegnendo. C’è chi, tra i giornalisti politici, ha fatto una scommessa e la sta vincendo: impossibile che Carlo Calenda e Matteo Renzi, i due super narcisi della politica, possano convivere per più di qualche mese nello stesso pollaio. E così è stato: l’amore è durato pochissimo e adesso finisce male, tra insulti, dispetti, sospetti, recriminazioni reciproche, basse insinuazioni su soldi e affari e cattive intenzioni di due maturi giovanotti dall’ego debordante.

Tutto è cominciato con la delusione numero uno, quella elettorale: altro che Terzo Polo, l’unione di Italia Viva (Renzi) e Azione (Calenda) alle ultime politiche è finita al quarto-quinto posto dopo i partiti grandi (magari anche in crisi) e prima solo dei piccoli. Per due generalissimi che si vedevano già alla testa di milioni di elettori è stato come uno schiaffo in faccia. Così hanno cominciato a litigare anche per la pubblica via: fino a quel momento i piatti volavano solo in cucina.

Adesso i due partitelli, in comunione precarissima nei gruppi parlamentari di Camera e Senato, avrebbero un’unica possibilità di sopravvivere: correre insieme alle elezioni europee. Partita crudele, regolata dal meccanismo della proporzionale stile prima Repubblica: ogni partito vince o perde a seconda dei voti che prende nelle enormi cinque circoscrizioni in cui è suddivisa la Penisola, e se ne prende meno del 4% non arraffa neanche un premio di consolazione; quanto ai candidati, devono sudarsi preferenza su preferenza per diventare europarlamentari. Non ci sono premi, trucchetti, meccanismi compensatori, niente. Calenda, sebbene tutto gli consiglierebbe di abbassare la cresta e fare la pace con Renzi, quantomeno per superare la soglia di sbarramento, non ne vuol sapere, correrà da solo (verso dove?).

E la conseguenza sarà, come accennato, che i gruppi parlamentari si frantumeranno, con la differenza che Renzi al Senato è in grado di formarne uno tutto suo, Calenda dovrà andare a rifugiarsi nel Misto. Già, perché Renzi ha cominciato a fare la corte ai calendiani che piano piano stanno arrivando tra le sue braccia (l’ultima la deputata imprenditrice Naike Gruppioni) sia a Roma sia in periferia, che si uniscono ai transfughi del Pd che fuggono dal partito ultrasinistro-radical-ecologista-Lgbt di Elly Schlein. Calenda perde pezzi, Renzi ne acquista man mano che il Pd delle «sardine al potere» cambia pelle e diventa tutt’altra cosa (al punto che la segretaria non vorrebbe ricandidare Paolo Gentiloni al ritorno da Bruxelles). La sindrome dei generali senza eserciti al seguito perseguita la sinistra italiana da molti anni e la vicenda di due Matteo e Carlo che sembrano avere «un grande avvenire alle spalle» non sfugge alla regola.

C’è però ancora una possibilità per ricavarsi un po’ di spazio politico in Parlamento. Entrambi, Calenda e Renzi, sono sostenitori del premierato (lo chiamano «sindaco d’Italia»), ossia dell’elezione diretta del capo del governo che così smetterebbe di essere un semplice presidente del Consiglio, primus inter pares, per diventare un premier all’inglese o un cancelliere alla tedesca. È una posizione molto vicina a quella di Giorgia Meloni che ha tutta l’intenzione di varare la «sua» riforma presidenzialistica entro questa legislatura, ma deve trattare con Salvini che spinge invece per approvare subito l’autonomia rafforzata delle regioni, poco gradita a Fratelli d’Italia e a Forza Italia. In questo gioco interno alla maggioranza, Matteo e Carlo, ancorché divisi, potrebbero avere una loro funzione. Quella della stampella.

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