Auto elettriche, gli errori tra Europa e Germania

Il commento. In Italia si è finalmente aperto un dibattito pubblico di ampia risonanza sulla scelta dell’Unione europea di proibire la vendita di automobili nuove con motori a benzina, diesel o ibridi a partire dal 2035. «Finalmente», dicevamo, ma in ritardo, considerato che la decisione è praticamente presa, sancita anche da un voto del Parlamento Ue, nonostante possibili correzioni di rotta nei prossimi giorni dopo che Roma e altre capitali hanno formalizzato il proprio scetticismo in sede diplomatica.

Discutere delle modalità della transizione ecologica dell’automotive, dei suoi rischi per investimenti e occupazione nel comparto, rimane di una qualche utilità in vista di una possibile revisione della decisione, e inoltre per evitare che un approccio simile sia replicato in altri campi, dagli imballaggi alle case per fare qualche esempio. In estrema sintesi, sul dossier «auto green» si è peccato per due volte di protervia, una volta a Bruxelles e un’altra a Berlino.

A livello Ue, la presunzione si è manifestata fin dall’origine della proposta normativa che va ben oltre il legittimo indirizzo di politica economico-industriale. Nel caso dello stop ai motori endotermici dal 2035, infatti, il decisore politico impone anche una data, peraltro ravvicinata, entro la quale azzerare le emissioni nocive delle auto, e prescrive le modalità per arrivarci (il motore elettrico di fatto). Dal punto di vista teorico, il ricorso a questa forma di «pianificazione centrale» sorvola - per citare il premio Nobel Friedrich A. von Hayek - sul fatto che «il problema economico della società consiste principalmente nel rapido adattamento ai cambiamenti che intervengono nelle particolari circostanze di tempo e di luogo», e che essendo le nostre conoscenze falsificabili e disperse tra milioni di individui, «le decisioni finali devono essere lasciate alle persone che conoscono queste circostanze, che hanno conoscenza diretta dei cambiamenti rilevanti e delle circostanze immediatamente disponibili per farvi fronte». Più concretamente, per l’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi, con l’attuale decisione «si rende quasi impossibile lo studio di altre tecnologie necessarie a custodire il pianeta: l’idrogeno, i combustibili biocompatibili…». E invece, continua Prodi, «la lotta al cambiamento climatico va condotta non solo col cuore ma con tutti gli strumenti scientifici a disposizione».

Il secondo peccato di protervia sul dossier «auto green» è stato compiuto probabilmente a Berlino. La Germania, patria di una potente industria automobilistica, è diventata nel tempo - al netto di una tardiva resistenza per aprire all’uso degli e-fuels - la capofila della svolta elettrica a livello europeo, peraltro accettando un dirigismo brussellese - come visto - ben poco «ordoliberale». Come è stato possibile? Due le ipotesi. Innanzitutto è plausibile che la classe politica tedesca ritenga di poter fare fronte a eventuali costi sociali della transizione green attingendo alle proprie finanze pubbliche, più floride di quelle di altri Paesi europei.

Allo stesso tempo l’establishment industriale teutonico si è convinto di poter cavalcare con successo una transizione a tappe forzate, perfino di fronte alla concorrenza asiatica e americana, facendo leva su investimenti monstre dispiegati nell’elettrico e su un «piano B» chiamato «Cina». Il primo produttore di auto a Pechino si chiama infatti Volkswagen, giova ricordarlo, e nel complesso le Case tedesche vendono oltre un terzo di tutti i loro veicoli nel Paese asiatico. Avendo avviato fabbriche con joint-venture cinesi ormai da decenni, le aziende tedesche hanno creato quella che alcuni analisti definiscono «un’economia parallela» per l’automotive: producono, vendono e manutengono milioni di veicoli, in un sistema ecologicamente ben meno esigente di quello europeo. Tuttavia dati recenti in arrivo dal solo segmento cinese delle auto elettriche, con i marchi nazionali di Pechino che nel 2022 hanno surclassato quelli tedeschi insediati in loco, consiglierebbero prudenza anche a Berlino. Fatto sta che finora, in Germania, finanze pubbliche in ordine e posizionamento industriale a cavallo tra due mondi hanno incentivato un atteggiamento poco solidale a livello europeo. A Paesi come il nostro, con investimenti e occupazione a rischio nell’automotive e nella sua componentistica di primo livello, spetta il compito di provare a modificare la rotta, con ragioni di buon senso liberale ed europeista.

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