Bicamerale e riforme, il rischio del già visto

POLITICA. Rispuntano le riforme istituzionali. Ricomincia il tormentone della politica italiana che va avanti dal 1982 (Commissione Bozzi) senza mai arrivare ad un risultato che non sia qualche infelice rattoppo della Costituzione (la riforma del Titolo V, fonte di confusione e infiniti conflitti tra Stato e Regioni).

Anche Giorgia Meloni però ha l’ambizione di passare alla storia come costituente al pari di D’Alema, Berlusconi, Prodi, Renzi. Il fatto che tutti loro siano stati sconfitti – nessuna riforma costituzionale organica è stata approvata dal referendum popolare – evidentemente non scoraggia la presidente del Consiglio, la quale ha deciso di convocare le opposizioni per martedì prossimo alle 12,30 nella Biblioteca della Camera con lo scopo di discutere proprio di questo annoso argomento.

Con le riforme rispunta l’idea della «Bicamerale», ossia di una commissione composta da senatori e deputati simile a quelle che, da Bozzi in poi, hanno finito col dare forfait dopo aver prodotto montagne di carta stampata. C’è da giurare che in alternativa alla «Bicamerale» qualcuno presto proporrà la «Costituente», cioè un’assemblea eletta dal popolo con lo scopo specifico di approvare le riforme costituzionali come si fece nel 1946-’48 dopo la guerra e la caduta del Fascismo.

In questa indiscrezione della possibilità di una «Bicamerale» sta però una mossa accorta della presidente del Consiglio: lei vuole che le riforme siano un fatto del Parlamento, non del governo, e questo significa che non aggancerà il destino suo e dei suoi ministri al successo di un progetto costituzionale, che poi fu l’errore fatale di Renzi. Dunque sarà il centrodestra, capeggiato naturalmente da Meloni insieme a Salvini e a Tajani, a dialogare con Schlein, Conte, Calenda e Renzi. Tutti sanno che il centrodestra è presidenzialista: vuole l’elezione diretta di un Capo dello Stato al quale attribuire direttamente i poteri dell’esecutivo in tutto, come in America, o in parte come in Francia. Le opposizioni di sinistra in generale sono contrarie al presidenzialismo in quanto vi vedono i rischi di autoritarismo: oltretutto, messo in mano agli eredi del Msi giunti al potere, si può capire quale terrore possa provocare una simile riforma.

Cosa Elly Schlein pensi e abbia da controproporre non è chiaro: pare che la segretaria sia poco interessata all’argomento. Ha annunciato che riunirà i suoi collaboratori e poi andrà ad ascoltare cosa ha da dire Meloni, sul resto silenzio. Altrettanto vago è l’atteggiamento di Conte (che non sarà all’appuntamento: convocato in tribunale per il Covid) che è un po’ presidenzialista e un po’ no, dipende dai giorni e dalle convenienze.

Per esempio potrebbe convenirgli offrire alla maggioranza un certo sostegno esterno – come sta facendo sulla lottizzazione della tv. Renzi e Calenda invece, insolitamente d’accordo, non hanno bisogno di ripetere un loro vecchio pallino, quello del «sindaco d’Italia», ossia il presidente del Consiglio che dovrebbe lui essere eletto direttamente dal popolo come un vero premier dotato di poteri sostanziosi, lasciando al Capo dello Stato un ruolo super partes di notaio della Repubblica. Quanto al nodo spinoso dell’autonomia rafforzata delle Regioni elaborata da Calderoli, le opposizioni almeno su questo sono unanimi e contrarie.

A tutti loro Meloni tenderà la mano per un dialogo costruttivo: «mica possiamo farle da soli le riforme», ha detto ai suoi.

Martedì dunque ricomincerà ancora una volta (la decima? l’undicesima?) una discussione, croce e delizia dei giornalisti parlamentari, che purtroppo avrà il sapore del già visto e soprattutto lo stigma del fallimento annunciato.

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