Campagna elettorale
e questioni di metodo

«Un governo bellissimo, ministri bravissimi!». Nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri dedicato al caro bollette, Mario Draghi prova a stemperare un po’ la tensione che si sta accumulando sul governo prima che diventi eccessiva. La sua strigliata di giovedì sera ai partiti è sulle prime pagine di tutti i giornali, insieme alla sua frase «se volete perdere tempo trovatevene un altro», come la sua plateale salita al Quirinale appena rientrato a Roma, direttamente dall’aeroporto a lamentarsi da Mattarella, la sua unica certezza. Le quattro bocciature che i parlamentari hanno inflitto al governo in Commissione sul decreto Milleproroghe sono state la classica goccia che fa traboccare il vaso. Ma Draghi sa benissimo che di quelle gocce, ce ne potrebbero essere tante da qui alle elezioni, e già intravede un percorso ad ostacoli destinato ad indebolirlo, reso impotente dai veti reciproci e soprattutto dal vecchio trucchetto del partito che in Consiglio dei ministri vota un provvedimento poi alla stampa dichiara che vuole modificarlo e infine organizza la guerriglia in Parlamento.

Un atteggiamento che è platealmente di Matteo Salvini ma dal quale non sono estranei i Cinque Stelle e anche diversi parlamentari del Pd che Letta stenta a controllare.

I partiti di fronte alla sfuriata di Draghi hanno abbassato la testa borbottando che «è il metodo che non va bene». Il metodo significa: palazzo Chigi e il ministero dell’Economia non ci fanno toccare palla, decidono tutto i tecnici, anche sulle nomine controllate dal governo, e quanto ai provvedimenti, mandano i testi qualche ora prima che li si debba votare. In effetti, anche Draghi si deve essere reso conto – lui super tecnico ma anche abituatissimo alla battaglia politica – che i suoi collaboratori non possono sempre trattare a pesci in faccia i partiti che comunque un voto alla Camera e al Senato lo devono pur esprimere. Basti ricordare che ormai è invalso l’uso di far approvare un provvedimento in un solo ramo del Parlamento consentendo all’altro una semplice ratifica. E ci sono tante riforme bloccate tra Montecitorio e Palazzo Madama, alcune di quelle indispensabili al Pnrr come la delega fiscale con la riforma del catasto.

Ma questo difficile rapporto tra l’arroganza dei competenti e la lotta per il potere dei partiti non basta a spiegare tutto. C’è da ricordare che le ferite lasciate dalla battaglia per il Quirinale – quella in cui la politica ha mostrato ancora una volta la loro impotenza – ha lasciato ferite profonde tra e dentro i partiti. Basti pensare al rapporto tra Pd e Cinque Stelle o, soprattutto, al centrodestra che si autoproclama «finito». Con queste lacerazioni, i partiti sono ormai in campagna elettorale: sia per le vicine amministrative sia per le politiche del 2023.

È fatale che ognuno cerchi di tirare l’acqua al proprio mulino elettorale: ora si tratta dei gestori degli stabilimenti balneari ora dei proprietari di casa, c’è sempre un segmento elettorale da contentare. Sono calcoli che evidentemente lasciano indifferente Draghi che viaggia ad un altro livello, ma che invece Letta e Salvini, Berlusconi e la Meloni, Conte e Di Maio o Renzi devono pur fare.

Ecco perché cresce l’insofferenza tra il fortino assediato di palazzo Chigi e quel che resta dei partiti: deboli, divisi, delegittimati, impotenti, screditati, ma pur sempre rappresentanti della volontà popolare in Parlamento. A loro Draghi in conferenza stampa ha concesso un contentino: «Se si deve cambiare metodo di confronto lo faremo». Ecco, forse anche a palazzo Chigi si comincia a pensare che l’altezzosità serve a poco.

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