Capitalismo in crisi
È un premio per pochi

A più di 10 anni dal fallimento di Lehman Brothers, il detonatore della Grande Crisi, s’affaccia una riflessione sui limiti del capitalismo, specie di quello anglosassone che ne detiene la leadership. In America 180 amministratori delegati di colossi aziendali hanno sottoscritto una dichiarazione per dire che scopo dell’impresa non è massimizzare il profitto, bensì promuovere il bene di tutti: il valore creato va condiviso con equità fra tutti quelli che l’hanno costruito. Non solo gli azionisti, ma anche i lavoratori e le comunità di riferimento.

Un botto in controtendenza di questa portata, in tempi recenti, è venuto dal mondo liberal, dai movimenti sociali, dalle varie sinistre e, per l’Italia, anche dall’universo cattolico. Il fatto nuovo di un giudizio così radicale è che giunge dall’interno del capitalismo e dal suo vertice, smentendo le teorie liberiste che hanno fatto scuola dagli anni ’80 in poi. E cioè: la sostenibilità sociale e politica di un business che, alleggerito del peso fiscale e lasciando ai margini i poteri pubblici, genera automaticamente così tanta ricchezza che «sgocciola» dall’alto verso il basso, beneficiando le moltitudini.

Non è andata così e la globalizzazione, pur con i suoi tanti meriti, ha rivelato un lato oscuro: l’impoverimento del ceto medio nelle società industrializzate, quel centro della società che ha sostenuto la democrazia, e più in generale l’acuirsi delle disuguaglianze di reddito e territoriali. Due scivolamenti che fanno capire il segno dei tempi. L’Italia, che ha avuto al governo due populismi, è l’unico Paese europeo – come ha ricordato l’economista Andrea Capussela sul «Sole 24 Ore» – ad aver perso un quarto di secolo: in termini reali, il reddito medio degli italiani è pressoché fermo al livello del ’95, mentre in Francia, Germania e Spagna è cresciuto di circa un quarto. Stiamo assistendo alla crisi del patto collaborativo fra capitalismo e liberaldemocrazia.

La Federazione degli imprenditori francesi ha promosso un documento congiunto di imprese e lavoratori dei Paesi del G7 per dire che l’economia globale non può essere sostenibile se esclude dai benefici della crescita una larga parte della popolazione. L’influente commentatore europeo Martin Wolf ha firmato un atto d’accusa sul «Financial Times», la bibbia del capitalismo e la lettura obbligata delle classi dirigenti: troppa disuguaglianza, corporation che eludono legalmente il fisco, monopoli digitali che dominano il mondo, stanno facendo perdere alla gente fiducia nel capitalismo.

Il clima sta cambiando, se non altro per autodifesa e per salvare capitalismo e globalizzazione dai propri deficit dopo gli anni ruggenti e l’ottimismo che avevano salutato la fine del comunismo e la marcia trionfale global. Di capitalismi ce ne sono tanti e quello europeo è certo temperato, tuttavia le stesse élites sotto accusa cominciano ad essere consapevoli che questo sistema premia i pochi a discapito dei molti. Personalità come Prodi (lo ha fatto anche nel recente intervento a Bergamo) non si stancano di denunciare i guasti delle disuguaglianze sociali e di sistemi fiscali pro business.

Ma già nel 2008, con il suo best seller «La paura e la speranza», Tremonti aveva spiazzato tutti, a partire dal suo centrodestra, elencando gli effetti negativi del «mercatismo», la fiducia assoluta nelle logiche liberiste. Tempo fa Warren Buffet, fra i grandi ricchi d’America e pur finanziatore del Partito democratico, sosteneva che nel caso di un conflitto di classe, avrebbero comunque vinto i capitalisti. Vero. Ma per raffreddare simili entusiasmi si può sempre confidare nella prospettiva, chissà quando, almeno di un onorevole pareggio.

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