Cronista ucciso
Sauditi e affari

Nel 2010 e nel 2015, la prima volta quando era segretario di Stato con il presidente Obama e la seconda quando preparava la campagna elettorale per la Casa Bianca, Hillary Clinton subì due clamorose intrusioni di hacker che poi passarono migliaia di sue mail a Wikileaks. Nell’una e nell’altra occasione, scoprimmo che la Clinton indicava ai propri collaboratori l’Arabia Saudita come principale finanziatore del terrorismo islamista nel mondo. E che cosa successe in seguito alla scoperta? Quali provvedimenti vennero presi per tenere a freno la petromonarchia wahabita? Nessuno. Zero. Nulla di nulla.

Anzi, peggio. Nel 2011, poco dopo la prima mail, gli Usa di Obama realizzarono una vendita record di armi ai sauditi, poi superata da quella di Trump. E nel 2015, poco dopo la seconda mail, cominciarono a fornire assistenza tecnica e di intelligence nella guerra che i sauditi avevano scatenato contro la minoranza sciita dello Yemen. Nel frattempo, tutti gli altri Paesi occidentali facevano a gara per assicurarsi le lucrose commesse che l’immensa ricchezza della petromonarchia (il fondo sovrano saudita ha un patrimonio del valore di 400 miliardi di dollari, e dovrebbe arrivare a duemila entro il 2030) poteva garantire.

Questo per dire che non si può essere troppo ottimisti sul caso di Jamal Kashoggi, il giornalista saudita entrato nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre e da lì mai più uscito. Quello che pian piano è emerso è degno dei più truculenti film di Quentin Tarantino. Kashoggi, che era atteso in strada dalla fidanzata turca, sarebbe stato ucciso nel consolato da una squadra di agenti sauditi arrivati il giorno stesso con due voli privati. Della squadraccia faceva parte anche un anatomopatologo che avrebbe diretto lo smembramento del corpo di Kashoggi, poi fatto sparire forse sciogliendolo nell’acido. Sappiamo tutto questo da un insieme di rivelazioni dei servizi segreti turchi, di intercettazioni americane (sorpresa sorpresa, gli hacker non sono solo russi) e di notizie diffuse dalla fidanzata, che aveva sintonizzato il proprio cellulare con l’orologio «intelligente» dell’uomo poi scomparso.

Chi era Kashoggi? Un giornalista. E che cosa aveva fatto per meritarsi una simile fine? Aveva criticato le politiche di Mohammed bin-Salman, il giovane erede al trono che di fatto manovra tutte le leve del potere in Arabia Saudita. Kashoggi era stato a lungo un beniamino della stampa del Golfo Persico, e spesso aveva viaggiato con le delegazioni ufficiali che accompagnavano il principe nei viaggi all’estero. Poi aveva cominciato a scrivere che forse la guerra nello Yemen non era una buona idea, che il piano di riforma dell’economia saudita, tracciato da Bin Salman e chiamato «Vision 2030», forse non funzionava. Che l’embargo decretato contro il Qatar si poteva evitare. E aveva così perso il favore del principe, al punto che si era trasferito negli Usa dove era diventato editorialista per il Washington Post. Tutto qui. Non un rivoluzionario o un terrorista, solo un giornalista.

Ci sono voluti dieci giorni buoni prima che il mondo si accorgesse di questa atrocità. Prima che Donald Trump mormorasse qualche debole richiesta di chiarimenti. Certo, non ci si poteva aspettare che i giornali e le Tv che, in tutto l’Occidente, avevano esaltato la presunta opera riformatrice di Bin Salman, consistita nel reintrodurre i cinema nel regno, si rendessero conto di aver fatto da ufficio stampa a un tiranno e fanatico religioso che sostiene i terroristi e ammazza i bambini yemeniti, oltre a soffocare le voci critiche. Ma di meglio si poteva certo fare.

Ora forse qualcosa si muove. Un po’ di pezzi grossi degli affari e della finanza ha disdetto la propria partecipazione al Future investment initiative, un mega summit del business che Mohammed bin Salman ha convocato nel proprio Paese dal 21 al 23 ottobre. Una doccia fredda rispetto a quando, nella primavera scorsa, portando in dote investimenti per 100 miliardi, poteva pranzare con la regina Elisabetta e negli Usa veniva accolto come una star dai boss della Silicon Valley e di Hollywood che considerano lo stesso Trump troppo autoritario. Ma non è da pessimisti prevedere che anche questa botta di dignità svanirà presto. I sauditi faranno circolare qualche proposta allettante nei posti giusti, i fari dei media si sposteranno su altri obiettivi, i politici europei tireranno un sospiro di sollievo e riprenderanno a vendere armi al buon principe. Noi continueremo a sentirci raccontare la favola secondo cui sì, è vero, ogni tanto c’è una guerra disastrosa in Medio Oriente ma è solo perché vogliamo libertà e democrazia per tutti. Tutti quelli, almeno, che non pagano bene.

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