Dal risultato delle urne un’unica lezione: i partiti sono nel caos

Come spesso accade nelle elezioni amministrative a doppio turno, chi vince
i ballottaggi tende ad appropriarsi dell’intera partita facendo dimenticare i risultati del primo match. Così il centrosinistra che ieri ha conquistato Verona e poi Monza, Piacenza, Alessandria, Parma e Catanzaro (Comuni dove nel 2017 registrò invece un disastro) minimizza il fatto che il centrodestra ha già guadagnato al primo colpo città ben più grandi come Palermo e Genova e che, tirando le somme conquista più capoluoghi degli avversari (13 a 10) e più città minori (58 contro 54). Resta però il fatto che la coalizione di Meloni, Salvini e Berlusconi (questo è l’ordine, ormai) finisce per passare come perdente per via delle baruffe che, ancora una volta, ne hanno impedito il cammino.

Basti guardare al caso di Verona: città tradizionalmente di centrodestra persa a vantaggio di un civico appoggiato dalla sinistra soprattutto per via delle divisioni tra alleati e della continua lotta per il comando tra Meloni e Salvini. Quindi, per l’immagine dei partiti finisce per contare poco il successo di Lucca, Sesto San Giovanni, Frosinone, perché si parla soprattutto, oltre che di Verona, della bocciatura di Parma e dell’amaro calice (per Berlusconi) di Monza. È un fatto che il centrodestra così com’è non funziona: le atroci sconfitte di Roma e Milano di un anno fa non hanno insegnato nulla. Candidati improbabili travolti dalle lotte tra alleati, da trabocchetti e trappole tra correnti e comitati elettorali, dalle liti di capi che in pubblico si fanno fotografare sorridenti, e poi dietro le quinte non lesinano colpi bassi. Per quanto la Meloni sfidi il centrosinistra a battersi sul terreno delle prossime elezioni politiche, quella che lei intende capeggiare è una coalizione divisa sia per rivalità personali (Salvini e Berlusconi stentano a riconoscerle un primato che tutti i sondaggi confermano) sia per grosse differenze programmatiche, per esempio in politica estera. Con la complicazione di un aggregato politico ormai spostato così a destra da porre, come nota il politologo Alessandro Campi, un problema di legittimazione internazionale dei possibili futuri governanti dell’Italia. Con Fratelli d’Italia avanti e Forza Italia in crisi profonda, chi perde posizioni sia al Nord che nel resto del Paese è la Lega, con Matteo Salvini che presto o tardi dovrà fare i conti con i capi regionali come Zaia e Fedriga e con l’eterno amico-rivale Giorgetti. Se questa è la situazione di grandissima incertezza che pesa sul centrodestra, dall’altra parte certo non si ride. Enrico Letta, abilmente, si sta accreditando come il vero vincitore della competizione (due milioni di elettori ma affluenza alle urne bassissima, 42 per cento) e, di conseguenza, come colui che può garantire il rafforzamento del governo Draghi secondo una linea di «patronage» su palazzo Chigi che il segretario del Pd non è mai riuscito a conquistare. Il problema di Letta è che il «campo largo» di cui si fa portabandiera in realtà non esiste: il M5S, indicato come alleato principale, si sta sciogliendo come neve al sole. Dal 32% delle politiche del 2018 il movimento sta precipitando verso l’inconsistenza di due formazioni che probabilmente si sfarineranno. E tuttavia quei voti che i grillini raccolsero sono quanto servirebbe a Letta per tornare a vincere e a impedire una premiership di Giorgia Meloni. Senza parlare del campo di Agramante del cosiddetto «centro» dove cinque o sei partitucoli si disputano, tra veti reciproci, un patrimonio elettorale che potrebbe variare dal 10 al 15%. C’è insomma una sola lezione da trarre dopo queste amministrative: la situazione dei partiti italiani oggi è di un drammatico caos in cui nessuno è in grado di prevalere sull’altro e tutti sono in lotta tra loro. Questo, a un anno dalle politiche, non è certo un risultato confortante.

© RIPRODUZIONE RISERVATA