Democrazia del capo, gli argini necessari

ITALIA. Quando si discute di democrazia torna sempre alla mente un celebre aforisma di Winston Churchill: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora».

Questa concezione relativistica dei regimi democratici quali «male minore» è presente in molte analisi e teorie di storici e filosofi, da Machiavelli a Weber e Schumpeter, fino al compianto Giovanni Sartori. Sta di fatto che oggi siamo in presenza di una sempre più evidente deriva della democrazia, che interessa gran parte dei Paesi occidentali e, in modo sempre più accentuato, il nostro. Per quanto ci riguarda, sono molte le ragioni alla base di una vera e propria «regressione democratica» che sembra purtroppo destinata ad assumere aspetti sempre più inquietanti.

Ne è chiara testimonianza il crescente distacco dei cittadini dalla politica che si sostanzia in una sempre più accentuata astensione dal voto, con un elettorato attivo intorno al 50%. La principale ragione di questo fenomeno è senza alcun dubbio riferibile allo scadimento della classe politica sul piano qualitativo e sul piano morale. Mancano esempi e comportamenti dei responsabili della politica che portino ad alimentare speranze e concrete aspettative per i cittadini. La situazione non è sostanzialmente cambiata con la costituzione e le iniziative adottate dall’attuale governo. Peraltro, la riforma del premierato annunciata dal presidente del Consiglio tende a sostituire la «democrazia rappresentativa», che ha come punto di riferimento il primato del Parlamento, con una specie di «democrazia del Capo». Ciò, con il rischio di alimentare personalismi e autoritarismi che, in modo più o meno evidente e graduale, portano a limitazioni delle libertà.

I problemi su cui ci si dovrebbe concentrare per ridare slancio alla politica sono altri. La crescita continua ad essere molto contenuta e il debito pubblico, sempre più elevato, impedisce interventi di sostegno ai meno abbienti, non consente l’aumento dei salari e limita l’occupazione giovanile. Si tocca ormai con mano anche un preoccupante assottigliamento della classe media, che ha sempre svolto un ruolo consapevole e di equilibrio nelle varie tornate elettorali. Non va dimenticato che la democrazia rappresentativa è nata come forma «epistocratica» (governo dei dotti) e tale è rimasta per tutto il periodo del suffragio limitato. Quando, a seguito di lunghe lotte popolari, il suffragio è stato allargato prima a tutte le persone di sesso maschile, poi anche alle donne, si è diffusa l’idea che all’uguaglianza nella titolarità dell’elettorato attivo corrispondesse eguaglianza nelle capacità.

In realtà, la parificazione tra eguaglianza formale e sostanziale in materia politica è smentita dalla stessa nostra Carta costituzionale, che attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono «l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del Paese» (art. 3). In passato i partiti, con le loro scuole e con l’attività delle loro sezioni, hanno svolto un importante compito per la formazione dell’elettorato e per la selezione dei candidati. Oggi, con la crisi dei partiti, la classe politica ha raggiunto mediamente un livello di impreparazione e di mediocrità che è sotto gli occhi di tutti. Ovviamente, la soluzione di tornare a un «elettorato ristretto» è improponibile. Il suffragio universale costituisce il meccanismo imperfetto e insieme imprescindibile per dare legittimità a ogni processo di costruzione civile che affondi le proprie radici su basi autenticamente democratiche.

Sarebbe molto opportuno, piuttosto, riflettere sulla necessità di accrescere il livello di educazione civica dei cittadini, ridando dignità ai partiti e attribuendo un ruolo centrale alla scuola e all’informazione nelle sue varie espressioni. Non solo; considerato il rilievo e le ricadute sociali dell’attività politica, sarebbe auspicabile l’introduzione di specifici requisiti di «candidabilità» per l’accesso alle varie cariche. Solo l’insieme coordinato di queste azioni potrebbe rendere concreto il dettato dell’art. 3 della Costituzione.

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