Draghi e i ritardi
L’urgenza lavoro

Visto che nessuno osa criticarlo (ma gli eccessi laudativi non sono mai un bene), Mario Draghi, prima di Ferragosto, ha provveduto in proprio con un’autocritica. Tale è sembrata, almeno a noi, l’ammissione che vi sono due questioni che avrebbero dovuto essere già chiuse: fisco e concorrenza. Secondo il cronoprogramma, la data limite era il 30 luglio. Ma almeno tre settimane sono state spese per dar retta ai capricci 5 Stelle sulla radicale e benemerita revisione della sciagurata legge Bonafede sulla giustizia. Purtroppo, le intercessioni Pd per il «progressista» Conte, quello che ci doveva governare con il voto di Ciampolillo, hanno innescato un ritardo, con ricadute sul Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza), ma soprattutto sullo spazio di azione, straordinario ma non infinito, di questo governo di emergenza. Anzi, sempre perché le critiche e gli stimoli sono comunque utili, vorremmo ricordare a Draghi che i nodi fuori cronoprogramma non sono due ma tre, e c’é anche la questione lavoro, prima che arrivi la scadenza ultima del blocco dei licenziamenti.

Il mese di luglio era davvero un momento magico da sfruttare, prima della propaganda per le amministrative e della paralisi indotta dai tanti che sperano di entrare nella corsa al Quirinale e non fanno quindi mosse impegnative su questioni divisive. Sulla concorrenza, la relazione annuale obbligatoria per legge è stata redatta solo una volta, nel 2016, mentre le distorsioni erano state segnalate come una palla al piede fin dal 2011 nella lettera Trichet/Draghi al governo Berlusconi! Qui si annidano i più tipici problemi italiani, quelli delle corporazioni. Chiaro che crea problemi un argomento come l’applicazione della direttiva Bolkestein (approvata 20 anni fa e rinviata al 2036). Può affrontarlo solo Draghi, ma anche lui deve fare in fretta.

Sulla riforma fiscale ha lavorato bene il Parlamento e l’analisi asettica dei nodi da sciogliere è impeccabile, ma la legge delega deve ancora decidere su tutto. Ci sono da disboscare centinaia di eccezioni alla regola, ma solo una mano politica forte potrà permettersi di scontentare micro interessi che resistono dietro gettiti che, caso per caso, sembrano trascurabili ma che valgono tutti insieme un miliardo e costituiscono ragioni di principio per categorie e gruppi sociali. Una riforma complessiva attesa da 35 anni richiede una svolta, buttando all’aria giustizie e ingiustizie nelle aliquote Irpef, equilibri tra dirette e indirette, scelta tra tasse sul lavoro e sulle rendite, questione evasione e via dicendo. Una vera rivoluzione. Un compito improbo per un governo che deve far riforme di questo peso con una classe parlamentare che ha il gruppo più grande allo sbando, costruita nel 2018 non per risolvere problemi ma per rabbia e dispetto. Al ministero dell’Economia hanno lavorato in parallelo con le commissioni parlamentari e molte carte sono pronte, ma perché allora un rinvio? In un autunno già carico di suo tra elezioni, pandemia e legge finanziaria - per non dire di legge Zan e ius soli, tra quelle fuori sacco - il rischio congestione è evidente, tanto più in assenza di una revisione dei regolamenti parlamentari che era stata promessa con il taglio dei seggi, facile solo da sventolare. Sarà una riforma costosa, nessuno si illuda, e le risorse necessarie dovranno venire dalle virtuosità delle oltre 150 riforme previste dal Pnrr. Ma anche qui bisognerà selezionare appetiti e rivendicazioni.

Quanto infine agli ammortizzatori sociali, il ritardo rispetto al 30 luglio è grave perché prima dello sblocco dei licenziamenti, bisognerà avere un’efficiente politica attiva. Un incontro tra sindacati e governo dei primi di agosto non ha risolto neppure un problema, mentre avanza una questione connessa molto grave, e cioè cosa fare del reddito di cittadinanza. I disastri non sono stati superati dall’aver rispedito in Mississippi l’uomo dei navigator (a cui un governo serio dovrebbe chiedere i danni). Si é perso tempo su ammortizzatori, riconversione e formazione, e il ministro Orlando, noto avversario del jobs act, non ha prodotto fin qui proposte convincenti. L’ammirevole sangue freddo di Draghi riuscirà a raffreddare un settembre di fuoco?

© RIPRODUZIONE RISERVATA