Due famiglie distrutte
è il momento di agire

Normale, nella sua banalità, è l’aggettivo che avremmo utilizzato per descrivere una domenica d’agosto come quella di ieri. Una come tante d’estate, in centro città. Ora di pranzo, famiglie a passeggio, qualche turista straniero con trolley al seguito. Fa caldo, ma non troppo. E invece di normale, in questa tragica giornata di follia, sangue e morte, non c’è davvero nulla. Ve la raccontiamo come l’abbiamo vissuta, nella sua crudezza, da testimoni oculari, per poi passare alle considerazioni. La sede de «L’Eco» è a poche decine di metri dal luogo dell’omicidio.

Ore 13,15, è tempo di pausa pranzo. Dopo una mattinata di lavoro usciamo dal giornale per andare a casa e «staccare» un’oretta dai fatti di cronaca di cui ci stiamo occupando. Percorsi pochi passi verso via Novelli per recuperare l’auto al parcheggio, subito la nostra attenzione viene richiamata da grida disperate. Sono quelle di una donna. Attorno sta accorrendo gente, ci avviciniamo. Lei è accasciata sul corpo esanime di un uomo: lo chiama tra i singhiozzi - «marito mio!» - e lo prega - «non mi lasciare, ti prego!». Lui è esanime, la vita sta abbandonando il suo corpo, lo si capisce bene, nella maniera più tragica, repentina e inarrestabile. Perde sangue, è stato accoltellato. Attorno a lui una scena che non potremo mai dimenticare: la figlia dodicenne che lo vede spegnersi e l’altra, di soli due anni, che seduta nel passeggino, osservando il trambusto con i suoi occhioni scuri, neppure si rende conto di quello che sta accadendo.

Il tutto avviene a 50 metri dalla caserma dei carabinieri di Bergamo Bassa. Ne escono marescialli, appuntati e militari semplici. Chiamano l’ambulanza, cercano di tenere a bada la folla che nel frattempo si è assiepata e invoca soccorsi tempestivi per il ferito, ormai in agonia. Tra gli accorsi, qualcuno abbozza un massaggio cardiaco in attesa del 118, ma è tutto inutile: poco dopo arriva l’ambulanza, il medico rianimatore ci prova, ma non può far altro che constatare il decesso. Un sottile velo azzurro viene pietosamente posato dagli infermieri sulle spoglie di Marwen Tayari - 34 anni, tunisino, da anni nella Bergamasca, alle spalle qualche problema con la giustizia -, cancellando così l’ultimo residuo di speranza dagli occhi disperati della moglie, che tra grida di dolore non vuol saperne di sciogliere quel drammatico ultimo abbraccio al padre delle sue figlie riverso sull’asfalto.

Poco distante, a una cinquantina di metri, circondato dai carabinieri, c’è il presunto accoltellatore. Un ragazzino magro, giovanissimo, sembra pietrificato. Accanto a lui è accorso il padre, il volto una maschera di choc e incredulità. Si mette le mani nei capelli, è disperato. Gli leggi negli occhi che sta realizzando, secondo dopo secondo, che quel raptus inspiegabile ha improvvisamente rovinato anche la loro vita. «La pagherai, ti daranno l’ergastolo!» inveisce la moglie della vittima verso il ragazzo, mentre i militari lo scortano, in stato di fermo, fino alla vicinissima caserma.

Come vedete, nulla di normale, dunque, in questa «normale» domenica d’estate in città. Né, soprattutto, nulla di accettabile. Al di là della dinamica del delitto – che sembra far pensare ai «cinque minuti di follia» del singolo più che alla degenerazione di un contesto urbano a rischio – alcune considerazioni sono d’obbligo. Non è normale che una zona centrale di una città come Bergamo, per lo più in pieno giorno, si trasformi nel teatro di un fatto di sangue efferato per una banale lite da marciapiede. E la tragedia, francamente, era nell’aria. L’ultimo fatto grave risale a giugno: un altro accoltellamento, nella stessa zona, fortunatamente con conseguenze meno gravi.

L’impressione è che, nonostante l’indiscutibile impegno delle forze dell’ordine e dell’Amministrazione comunale (dai controlli a tappeto, alle ordinanze che vietano il consumo di alcolici in tutta l’area), il «quadrilatero» della stazione sia sempre più zona franca per il rispetto della legalità. Possiamo testimoniare, senza tema di smentita, passandoci tutti i giorni e tutte le notti causa la vicinanza con il nostro luogo di lavoro, che l’iniziativa lodevole e apprezzata dei concerti in piazzale Alpini ha sì avuto il merito di rivitalizzare quell’area e sottrarla al degrado, ma di fatto il consumo di droga e alcol si è solo spostato all’altro lato della strada. Il problema è complesso, nessuno ha la ricetta per risolverlo dall’oggi al domani, e va riconosciuto a tutte le istituzioni, realtà e associazioni in campo nella zona di averci messo il cento per cento dell’impegno, risorse e cuore. Ci si prova da sempre, ma l’area da presidiare è vasta e pensare di militarizzarla h24 è semplicemente impossibile, oltre che irrealistico. Bisognerà forse aspettare l’atteso restyling urbanistico Stazione - Porta Sud per renderla più controllabile e quindi più vivibile.

Sta di fatto, però, che oggi via Novelli, di giorno e specialmente di sera, nonostante il deterrente (anche fisico, plastico) della presenza della caserma dei carabinieri, è popolata da persone che bivaccano, bevono e discutono all’angolo con viale Papa Giovanni XXIII. L’impressione, passando vicino a questi capannelli, è che possa sempre, da un momento all’altro, scattare la molla per una rissa o peggio. Escrementi a lato della strada e sui marciapiedi, bottiglie di birra, odore di stupefacenti fanno da sfondo. Se passi in mezzo, ti offrono droga. Tutte le notti all’una, all’incrocio Papa Giovanni-Novelli, si notano le solite quattro-cinque auto di tassisti abusivi che attendono clienti dalla stazione: per carità, loro non fanno male a nessuno, cercano come possono di sbarcare il lunario. Ma in qualche modo restituiscono anche loro l’idea dell’aura di illegalità che avvolge la zona.

Ed è un fatto che la tragedia costata la vita a Marwen Tayari è successa qui, proprio dove si temeva che sarebbe successa. Lui, la vittima, viene descritto dai conoscenti come una «testa calda», frequentatore della zona. Non era nuovo a liti e scaramucce - dicono - e qualche problema con la giustizia lo aveva avuto. Che sia morto per una lite, per cinque minuti di follia, o per che altro lo stabiliranno gli inquirenti. Ma questa tragedia a cui la città ha assistito impotente, faccia riflettere sull’urgenza di provare a intervenire di nuovo, in qualche modo, al più presto.

Sullo sfondo resta il dramma di due famiglie distrutte da un lampo di follia: nessuno ridarà più ai suoi cari il sorriso di Marwen, nessuno riuscirà più a portare un sorriso tra i cari di chi ha armato la propria mano, rovinando per sempre anche la propria vita. Non c’è peggior condanna di questa. L’odio genera odio, ma la pietà potrà forse far rifiorire la speranza.

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