Economia Ue ferita
I punti fermi italiani

L’ultimo bollettino della Banca centrale europea è un bollettino di guerra e non poteva essere diversamente. Riguarda i danni economici della pandemia, lo tsunami senza precedenti che si è abbattuto sugli Stati dell’Unione a livello economico. Il Fondo monetario internazionale l’aveva già definita la più grave recessione dai tempi della Grande depressione del 1929. In realtà quello che preoccupa dell’analisi dell’istituto di Francoforte non riguarda tanto la facile previsione di una «contrazione senza precedenti» dell’Eurozona, quanto l’incertezza con cui si guarda a questa sorta di «grande depressione in arrivo». Già quantificarla è difficile, poiché l’ente finanziario presieduto da Christine Lagarde preconizza una forbice che oscilla tra il 5 e il 12%.

Numeri spaventosi, si capisce, ma molto diversi da un estremo all’altro in termini di impatto sull’economia, l’impresa e il lavoro (un punto di Pil europeo è 158 miliardi di euro). La Bce preconizza una ripresa «con la graduale rimozione delle misure di contenimento». In tempi brevi o in tempi lunghi, rispetto ai quali come recita il celebre aforisma keynesiano, «siam tutti morti»? In questo caso più che a un banchiere la Lagarde e gli altri membri del board somigliano all’oracolo di Delfi: «rapidità e portata della ripresa» risultano «incerte». Insomma: non si pronunciano. Non resta che consolarci apprendendo che Francoforte continuerà ad acquistare titoli di debito finché non finirà l’emergenza per sostenere le imprese e i consumi delle famiglie.

Il resto è noto e gli imprenditori lo stanno vivendo sulla propria pelle. La prima cosa da fare è quella di riattivare la domanda interna dopo il gigantesco lockdown dei consumi (c’è chi parla di «helicopter money», di soldi «sganciati dall’alto», ovvero da mettere direttamente nelle tasche dei cittadini per far girare l’economia). Ma anche qui domina l’incertezza: «L’impatto nel medio periodo sui consumi privati dipende dalla durata dei lockdown, dal ritmo di allentamento delle misure, dai cambiamenti del comportamento delle famiglie e dall’efficacia delle politiche pubbliche». Lo tsunami Covid naturalmente non risparmia l’Italia: solo quest’anno la perdita di Prodotto interno lordo è stimata intorno al 9%.

La chiusura forzata delle attività ha generato shock simultanei che stanno avvelenando il made in Italy. Ma forse possiamo essere più ottimisti e meno incerti della Lagarde. Gli uffici studi delle associazioni di categoria prevedono che il segno più tornerà, nella peggiore delle ipotesi e per i comparti più a rischio come il turismo, a partire dal 2021, ma fino ad allora dobbiamo stringere i denti e contare sul sostegno del governo. Ci sono settori pronti a ripartire, come quello manifatturiero, il secondo più potente d’Europa, altri, come la distribuzione, che non si sono mai fermati. Altri ancora, come l’alimentare, che sono in crescita. Inoltre ogni crisi ha permesso una riorganizzazione dell’intero comparto produttivo.

La crisi del coronavirus ha accelerato il ritorno a forti misure pubbliche per stimolare la ripresa. L’Italia gode ancora di significativi vantaggi competitivi in alcune catene di offerta (componentistica, automobilistica, industria agroalimentare), mentre ci sono spazi per consolidare quelle nell’aerospazio, nella microelettronica, nella meccanica strumentale e nella cantieristica. L’impetuosa trasformazione digitale del manifatturiero (la cosiddetta industria 4.0), richiede un ripensamento vero e proprio dei modelli di business e di organizzazione. Ogni crisi economica, se ben gestita, porta a una rinascita, a quella «distruzione creativa» di cui parlava Schumpeter. Sarà così anche per questa.

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