Europeismo e libertà
L’attualità di Einaudi

Cade oggi il 60° anniversario della morte di Luigi Einaudi, e ricordarne il pensiero, consente di scoprire la straordinaria attualità di tante sue posizioni. È suggestivo confrontare l’uomo e la sua epoca con i tempi odierni. Un paragone certo impari, pensando che si relazionava con i De Gasperi, Nenni, Togliatti, Saragat, i giovani Fanfani e Moro. Einaudi appare a distanza davvero un gigante, autore di una sterminata pubblicistica in materia economica e sociale, riversata con linguaggio limpido e moderno in un’attività giornalistica straordinaria. Ricordarlo 60 anni dopo, come è stato osservato dal rettore dello Iulm Giovanni Puglisi in un bel convegno svoltosi a Roma nei giorni scorsi, è molto più stimolante che in passato - quando era solo un’icona rispettata - in questo 2021, in cui un suo successore alla Banca d’Italia guida un Governo che tenta di correggere la legislatura del populismo e del sovranismo, fuga dalla realtà il primo e anacronismo il secondo.

L’europeista di antica data Einaudi («gli Stati sovrani sono polvere senza sostanza»), definiva il sovranismo un «idolo immondo», radice delle guerre e ostacolo sociale. Se gli avessero parlato di reddito di cittadinanza, avrebbe obiettato che «se il sussidio si avvicina troppo al salario normale suo, perché egli dovrebbe essere diligente nel cercar lavoro e non troppo sottile nell’accettarlo?». Una profezia, ma non per sottovalutazione della questione sociale. Ventenne, ancora dentro l’Ottocento, aveva sostenuto l’utilità delle «leghe operaie», strumento di «riscatto» per le classi meno fortunate e stimolo alla «bellezza della lotta» che nel 1924 motivavano la sua avversione al corporativismo fascista.

Molto attuale è oggi anche il timbro del suo liberalismo, sottovalutato per decenni ed oggi inflazionato da omaggi approssimativi del vizio alla virtù. Lo avrebbero fatto sorridere. È il liberalismo connesso alla morale, ben sintetizzato da Piero Gobetti: «Scienza economica subordinata alla morale». La libertà viene oggi esaltata nelle piazze con le invettive contro i vaccini, ma è appunto una libertà disgiunta dalla moralità, che non è mai contrapposizione violenta ai diritti altrui, compromettendo l’etica del bene comune.

La libertà, per Einaudi, sta in un circolo virtuoso che si autoalimenta, e in cui l’individuo offre un progetto di severità innanzitutto con se stesso in cambio di regole pubbliche che gli consentano di esprimersi secondo le sue aspirazioni più profonde, in un quadro di «uguaglianza dei punti di partenza». È solo così che l’innovazione, l’intrapresa, il rischio diventano dinamiche sociali. E lo Stato, in questo, può far molto. Einaudi crede nello Stato, lo ritiene indispensabile e insostituibile in tante funzioni, ma il mercato deve essere libero, spontaneo, concorrenziale veramente, come quello da lui mirabilmente descritto: il mercato di paese, con il dispiegarsi spontaneo delle contrattazioni, ma in presenza «del cappello a due punte della coppia dei carabinieri, la divisa della guardia municipale, il palazzo del Municipio. Il notaio, l’avvocato, il parroco».

Ma quanto sia distante la politica di oggi lo dimostra il breve discorso di saluto al Parlamento che lo aveva eletto Presidente nel 1948. Lasciando un’attività che aveva onorato come costituente (si pensi all’articolo 81, con l’ammonizione che ogni spesa deve essere coperta, «per serietà») rimpiangeva la «gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a sè stessi di avere… torto e accedere… all’opinione di uomini più saggi di noi». Proprio quello che accade oggi, in cui l’avversario ha torto a prescindere e non lo si sta neppure a sentire…

© RIPRODUZIONE RISERVATA