Ex Ilva, nodo irrisolto di politica industriale

INDUSTRIA. L’ennesima puntata della crisi dell’ex Ilva – l’impianto siderurgico più grande d’Europa – ha le sue radici nella mancata conciliazione tra esigenze produttive, occupazionali (impiega 10.500 dipendenti, per non parlare dell’indotto) e ambientali.

Il quartiere tarantino di Tamburi, dove ai davanzali delle finestre e sugli stenditoi si forma uno strato di polvere rossa che chi scrive ha visto coi suoi occhi e che in passato ha visto crescere rispetto alla media tumori anche infantili, ne è un esempio. Attualmente la gestione di Acciaierie d’Italia (così è stato ribattezzato l’impianto) è in mano, in quanto azionista di maggioranza, alla ArcelorMittal, del magnate indiano Lakshmi Nivas Mittal, salito tra l’altro all’onore delle cronache per aver organizzato per la figlia un matrimonio di tre giorni a Barcellona costato 50 milioni di sterline. L’azienda l’aveva comprata all’asta nel 2018, assumendosi il difficile compito di risanare una società compromessa da anni di indagini per danni ambientali. Il risanamento però non è mai avvenuto. E così, alla fine del 2020 lo Stato aveva quindi deciso di intraprendere un percorso per diventarne il proprietario. Nel dicembre di quell’anno era stato approvato un accordo per il rilancio: lo Stato sarebbe arrivato a detenere il 60 per cento del capitale. Ma quel piano non è mai andato in porto.

E così arriviamo alle ultime vicende. Le Acciaierie continuano ad andare in perdita e sono da tempo in crisi di liquidità. Per salvare la produzione e mantenere i posti di lavoro serve oltre un miliardo di euro, un 24° dell’ultima manovra economica. Ma la multinazionale franco indiana, che ne possiede il 68 per cento, non vuole più investirci; la parte restante è dello Stato, che è disposta a metterci gran parte dei soldi per rilanciarla a patto di prenderne il controllo e diventare socio di maggioranza come nei piani del 2020.

L’ipotesi più probabile è che l’ex Ilva finisca temporaneamente sotto amministrazione straordinaria, una procedura che le permetterebbe di restare operativa concordando con il tribunale civile un piano di risanamento che tuteli i creditori e i dipendenti. Ma la faccenda non è così semplice perché lo Stato da solo non può rilanciare un settore complesso e strategico come quello dell’acciaio. Serve un socio privato dotato di know how in grado di competere con i concorrenti mondiali. Da tempo al ministero dell’Economia si stanno cercando investitori, ma senza riuscirci. In pratica lo Stato vuole rientrare nell’ex Ilva come padrone, rovesciando le parti, l’Arcelor Mittal invece vuole recuperare i soldi investiti e andarsene per sempre, senza rimanere socio di minoranza e quindi senza continuare a mettere soldi nelle acciaierie tarantine. La multinazionale del magnate indiano sostiene anche che a fronte di due miliardi di euro lo Stato ha versato solo 350 milioni. E dunque, prima di arrivare al commissariamento, vedremo le parti in causa approdare in tribunale con un contenzioso giuridico che potrebbe costare allo Stato centinaia di milioni di euro. Sullo sfondo il problema di assicurare l’obiettivo paradigmatico dell’ex Ilva: quello di conciliare salute, produttività e lavoro. Come ha rimarcato il nuovo arcivescovo di Taranto monsignor Ciro Miniero, sostenendo una linea ferma che era già stata del predecessore Santoro: «Non c’è alternativa a quella fabbrica a Taranto. La chiusura sarebbe veramente una catastrofe, che significherebbe non pensare al bene di una comunità che è stata formata a questo». L’arcivescovo ha fatto notare anche alcune contraddizioni di politica economica, poiché se l’Europa l’acciaio se lo procura nei Paesi orientali praticamente «fa un danno a sé stessa». L’Oriente in qualche modo è riuscito ancora di più dell’Europa a trasformare ciò che era scarto in risorse, come in Giappone, nota in tutto il mondo per le sue lame inossidabili usate nelle cucine, che ha aumentato la produzione. Perché questo non può avvenire anche in Italia? Perché non può avvenire anche a Taranto? Perché non produrlo utilizzando la tecnologia di oggi, facendo in modo di creare altri poli tecnologici sostenibili, rispettosi dell’ambiente, che aiutano poi a questo cambiamento, a questa transizione necessaria? Sarebbe il caso che lo Stato con l’ex Ilva facesse la voce grossa, facendosi rispettare. Quello dell’ex Ilva è un nodo di politica industriale che i precedenti governi non hanno mai risolto, spostando la notte più in là, e che ora, per la premier Meloni, rappresenta un banco di prova importante.

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