Grandi banche
e vasi di coccio

Senza la presenza del pubblico, come da regole Covid, con i notai a rappresentare masse di soci, a fine aprile hanno avuto luogo alcune assemblee bancarie il cui esito merita riflessioni di prospettiva. Prendiamo due casi diversi, per certi aspetti opposti: l’assemblea di Intesa Sanpaolo, la più grande banca italiana, e quelle delle piccole Casse rurali, divise a Bergamo in sei compartimenti distinti. Fanno tutte lo stesso mestiere, hanno tutte il dovere di essere imprese, e lo sanno fare, ma nella diversità dimensionale dovrebbero stare differenze comportamentali e di relazione con il mercato, unico a giudicare davvero.

Certo è che Intesa Sanpaolo, nata dalla svolta storica di Giovanni Bazoli e Enrico Salza, ha fatto alla grande la sua parte negli ultimi anni, quelli di Carlo Messina: prima accettando la responsabilità di svolgere una funzione nazionale, con la partecipazione al salvataggio di banche che avevano praticato l’autoreferenzialità di vertice anziché la vocazione popolare, e poi diventando player a livello continentale. Il tutto, creando valore e assorbendo le spinte della politica che sulle banche ha costruito la campagna elettorale del 2018, e che in altri tempi avrebbe imposto solo assistenza. L’approdo è stato coraggioso, con la fusione Ubi, quasi un azzardo perché coincidente, addirittura ad horas, con la crisi pandemica, ma è pienamente riuscita. Il difficile viene adesso perché la grande dimensione deve conciliarsi con la duttilità della relazione con il localismo. Più che dal vertice, tutto dipenderà dagli uomini in trincea sul posto, che dovranno far capire quanto conoscono le sfumature e le attese dell’economia locale, che a sua volta ha un occhio in casa e l’altro nel mondo. Lo strabismo di Venere che fa grande la nostra industria.

Proprio qui si gioca il futuro dell’altra faccia della medaglia bancaria, quella delle piccole Casse rurali, che hanno però compreso da tempo che il bel tempo antico, romantico, della relazione personale tra funzionario e cliente, non è più un dato scontato in partenza. I risultati presentati da Messina in assemblea sono certamente impressionanti. Il gruppo gestisce 1.200 miliardi del risparmio privato, e ogni giorno nella rete passano transazioni per 35 miliardi. In cassa ci sono 100 miliardi del debito nazionale, il secondo dopo la Bce. Ma soprattutto quasi un terzo del Pil nazionale, 500 miliardi, costituisce il contributo all’economia, più del doppio del Recovery europeo. E i programmi di Messina contemplano altri progetti che muoveranno un panorama bancario già di suo in grande fermento, perché tutte le banche principali, anche Bper, che a Bergamo è ormai protagonista, sono a caccia di nuovi orizzonti, sotto impulso della Bce e ruotando in Italia attorno al tema non risolto del futuro di Mps, ora statalizzata. I giganti si muovono, insomma, e tutto cambia. Saper svolgere una funzione che non sia quella dei vasi di coccio è dunque la sfida urgente delle Casse rurali. I bilanci di aprile, nel loro piccolo, non sono da record come per il numero uno, ma sono buoni. Gli utili veri sono ritornati, le difficoltà più gravi sembrano risolte, i criteri di misurazione di affidabilità, buona amministrazione, stabilità, soluzione dei casi di sofferenza, sono tutti - chi più chi meno - incoraggianti. Si è anche riaperto il dibattito interno - sollecitato da Iccrea - su possibili fusioni, comprese quelle fuori provincia, che però potrebbero essere una sconfitta dopo tanti sforzi di coordinamento. Se una massa critica non parcellizzata ma sinergica potrebbe fronteggiare meglio le sfide in corso, va però detto che non è solo questione di dimensioni. Il grande tema diventa sempre più quello della diversità. Si tenga conto del fatto che anche il sostegno al localismo, al volontariato, all’associazionismo, che ha fatto immenso bene al nostro territorio, si confronta anche qui con l’esistenza delle Fondazioni che sono azioniste delle grandi banche, e che dal 2000 hanno distribuito ben 24 miliardi in aiuti e investimenti sociali. Curiosamente sia le nuove grandi banche che presidiano il territorio, che le piccole che vengono storicamente da lontano, hanno lo stesso problema: fare la differenza.

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