I 18 sequestrati
L’Italia beffata

Il pescatore è un mestiere antico come il mondo. Nei Vangeli è spesso presente anche in forma allegorica: era l’occupazione di alcuni discepoli che Gesù chiamerà a diventare pescatori di uomini. Una professione pesante e poco redditizia, ultimamente peggiorata per via di mari inquinati e di norme di tutela assenti. Proprio in questi giorni però, dopo ben 26 anni di attesa, la Camera ha approvato la Zona economica esclusiva, un’area che si estende fino a 200 miglia dalle nostre coste e tutela gli interessi degli italiani rispetto alle battute di pesca illegali.

Dalla notte tra l’1 e il 2 settembre scorsi otto pescatori siciliani e dieci di diverse nazionalità, con i pescherecci «Medinea» e «Antartide», registrati nel porto di Mazara del Vallo, sono sotto sequestro in Libia, costretti a entrare nel porto di Bengasi da una piccola vedetta e da un gommone della milizia del generale Khalifa Haftar, il capo militare libico tra i principali leader politici della Cirenaica. Da più di due mesi, quindi, un ufficiale discusso ricevuto spesso a Roma con i massimi onori, detiene illegalmente 18 cittadini. Il 20 ottobre scorso si è tenuto il primo processo: l’accusa è sconfinamento e pesca abusiva in acque libiche. Surreale in un Paese che tiene migliaia di migranti imprigionati, tra violenze, torture, stupri e talvolta delitti, ed ha una Guardia costiera infiltrata dalle mafie locali.

La vicenda non ha ricevuto la ribalta mediatica di altri italiani in ostaggio, come i due Marò in India, fucilieri imbarcati su una nave privata e accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012 al largo della costa del Kerala due pescatori indiani scambiati per terroristi. Per il momento il nostro governo non lascia trapelare quasi nulla del negoziato che ha avviato con Haftar: chiede «riservatezza », ma ormai la richiesta è diventata solo un paravento per celare l’evidenza che il generale libico si prende la libertà di non restituire i pescatori all’Italia. Non solo: come scritto dal «Libyan address journal», vorrebbe barattare la liberazione dei 18 ostaggi con la scarcerazione di 4 scafisti libici che erano stati condannati a 30 anni di carcere in Italia per la morte di 49 migranti e detenuti nel nostro Paese.La ricostruzione della notte in cui il sequestro avvenne getta una luce ancora più umiliante sul comportamento delle autorità italiane. La presa in ostaggio dei due pescherecci è avvenuta infatti con il mancato intervento di un elicottero di un cacciatorpediniere della nostra Marina militare che era a 115 miglia dall’area del sequestro, giustificato con la pericolosità del soccorso che avrebbe potuto mettere a rischio la vita dei pescatori.

La vicenda è anche molto politica: i due pescherecci erano infatti in acque internazionali e non hanno commesso alcun reato. Il sequestro è pure una ritorsione di Haftar per l’appoggio dato dall’Italia al governo legittimo di Tripoli, suo avversario, tenendo però rapporti con il generale: non si sa mai. Fra l’altro a sostenere l’ufficiale c’era anche l’Egitto, al quale vendiamo armi e navi militari nonostante l’irrisolto delitto Regeni ma perché il Cairo «è fattore di stabilità nell’area» per usare parole del nostro governo. Già…

Con il solito tempismo e sensibilità umana, il capo dello Stato Sergio Mattarella ha telefonato al sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci, per ricordare che «sta seguendo da vicino la vicenda». «Vuol dire che non ci hanno dimenticati» ha detto la moglie di uno dei pescatori, in presidio con altri parenti dei sequestrati davanti a Montecitorio, in una tenda allestita dalla Croce Rossa. C’è anche un bel risvolto umano e solidale in questa storia: gli armatori dei due pescherecci sequestrati continuano a farsi carico delle famiglie dei loro dipendenti, ma senza le due imbarcazioni sono sull’orlo del fallimento. Il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero paga le bollette, altri contributi sono arrivati dal Comune, dall’Assemblea regionale siciliana e da Federpesca. Ma sarebbe ora che il governo italiano adottasse una politica più incisiva in Libia, soprattutto nei confronti di un generale che vuol farsi dittatore. Come il «Sultano» Recep Erdogan, verso il quale abbiamo intrapreso una politica di «appeasement»: da anni incarcera gli oppositori che osano parlare, ha permesso il passaggio in Siria dal Sud della Turchia di armi e militanti dello Stato islamico, usa come strumento di ricatto i tre milioni di siriani accolti ricevendo dall’Ue 6 miliardi di euro, destabilizza il Mediterraneo orientale mandando in zone greche navi alla ricerca di risorse energetiche nei fondali, bombarda i curdi nel Nord della Siria per liberare la zona e spedirvi i profughi, con un’operazione di pulizia etnica. E ora infiamma le piazze islamiche, di cui vuole diventare leader radicale, sostenendo l’enormità mendace che i musulmani in Europa (il 5% della popolazione totale) sono vittime di «una campagna di linciaggio simile a quella contro gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale». Non è troppo, anche se in gioco ci sono buoni rapporti commerciali?

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