I suicidi nei penitenziari, quelle voci inascoltate

IL COMMENTO. Susan e Azzurra a Torino, Federico a Bergamo. Sono solo gli ultimi tre, ma l’associazione Ristretti Orizzonti, nel suo triste data base, ne ha compilati altri 43 dall’inizio dell’anno. Dal 2000 sono 1.356. Sono i morti suicidi nei penitenziari italiani.

Sabato 12 agosto il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha visitato il carcere delle Vallette, a Torino, dove in un solo giorno due donne si sono tolte la vita (Susan si sarebbe lasciata morire di fame). Una visita segnata da una durissima protesta dei detenuti che hanno in tutti i modi leciti manifestato il loro dissenso (urla, fischi, battiture delle sbarre). «Lo Stato non abbandona nessuno - ha detto il Guardasigilli -. Il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i Paesi al mondo e a volte è imprevedibile». Per poi ammettere però che «siamo di fronte a una disparità tra risorse disponibili e compiti che ci proponiamo».

Nordio non è il primo ministro della Giustizia che si trova ad affrontare la situazione drammatica delle carceri italiane e sicuramente non ignora che in Italia la frequenza dei suicidi tra i reclusi è 13 volte superiore a quella fuori. E che i mesi estivi in celle sovraffollate sono quelli più drammatici: sospensione delle attività, caldo torrido... Un mix micidiale che sulle personalità più fragili agisce da detonatore.

Le carceri italiane sono allo stremo: i detenuti sono 57.749 e il sovraffollamento medio è del 120%, con qualche punta negativa, come a Bergamo, dove è del 160% (521 su una capienza regolamentare di 319). Per capirci, siamo quasi ai livelli del 2006, prima dell’indulto, i cui effetti benefici sul funzionamento delle carceri sono durati non più di cinque o sei anni. Rispetto al 31 dicembre del 2006 ci sono quasi ventimila detenuti in più. Eppure le statistiche ci dicono che i reati in Italia sono in costante calo (dal 2015 al 2021 mezzo milione di denunce in meno). Cosa è successo? Triste dirlo, ma purtroppo non è successo niente. I due principali dispositivi normativi che «producono» detenuti, vale a dire la legge sull’immigrazione e quella sugli stupefacenti, sono rimasti grossomodo immutati e continuano a portare dietro le sbarre, essenzialmente, tossicodipendenti, spesso con diagnosi psichiatriche, e immigrati irregolari, privi di risorse e reti parentali che li sostengano. Due terzi dei detenuti nelle carceri italiane appartiene a queste due tipologie umane. Si tratta di persone che raramente riescono ad accedere alle pene alternative, perché prive di domicilio o di documenti e che il più delle volte rimangono intrappolate nel famigerato meccanismo della «porta girevole»: entrano e escono dal carcere senza intraprendere nessun percorso di reinserimento.

Nonostante la buona volontà di chi ci lavora (a proposito, alla Casa circondariale di via Gleno i 185 agenti in servizio sono arrivati ad accumulare 27mila ore da recuperare) e dei tanti volontari che si spendono per far sì che la pena sia davvero rieducativa, come prevede la Costituzione, la sfida appare impari.

Anche perché le soluzioni prospettate, è stato detto anche ieri a Torino, riguardano sempre la costruzione di nuove carceri o l’adattamento di strutture dismesse a penitenziari, senza pensare troppo a chi poi si troverà a viverci, o a lavorarci. E la politica sembra concentrata su altro. Per esempio sull’individuazione di nuovi reati o nel tentativo di inasprire pene.

La triste conta dei suicidi in carcere l’abbiamo fatta troppe volte, puntualmente a ogni agosto, ma ogni anno che passa le voci di chi prova a dire «stop» sembrano sempre più inascoltate e i principi che ispirarono, ormai quasi cinquant’anni fa, il nostro ordinamento penitenziario, uno dei più avanzati d’Europa, relegati a un manuale di buone intenzioni.

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