L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 28 Aprile 2019
I tagli alla spesa
e le scelte impopolari
L’ammontare della spesa pubblica resta uno dei nodi di maggiore criticità nell’azione dei governi contemporanei. Da tempo economisti e politologi hanno sottolineato come essa, da strumento espansivo, si sia trasformata in vincolo stringente dell’azione di governo. Le risorse disponibili per fronteggiare la crescita degli ambiti di intervento dei poteri pubblici si rivelano sovente insufficienti e costringono a un progressivo aumento della tassazione. Allorché a tale scenario si somma l’inefficienza dell’uso delle risorse, il quadro diventa preoccupante.
Ed è proprio quello che si registra – non certamente da oggi – in Italia. Non a caso da tre decenni il nostro Paese è alla prese con la «spending review». Alcuni ricorderanno la manovra «lacrime e sangue» con la quale il governo Amato affrontò nel 1992 il baratro del deficit del bilancio dello Stato. All’inizio di questo secolo Tommaso Padoa-Schioppa riportò l’attenzione al problema dei risparmi di spesa durante il secondo governo Prodi, istituendo una Commissione per la finanza pubblica che formulò ben 90 «raccomandazioni». Caduto il governo caddero anche le proposte di revisione della spesa.
Negli anni successivi venne imboccata la strada dei «commissari» per la spending review. Nell’arco di circa un decennio – dal governo Monti a quello Renzi – si sono succeduti nell’incarico Enrico Bondi, Carlo Cottarelli, Yoram Gutgeld e Roberto Perotti con risultati non propriamente esaltanti, visto che una recente indagine condotta dal quotidiano di Confindustria denuncia i limiti dei risparmi ottenuti nell’arco 2007-2018. Periodo nel quale – sia detto, quasi pleonasticamente, per inciso – sulle economie di quasi tutti i Paesi del mondo si è abbattuta una crisi pesantissima e nel quale gli Stati dell’Ue hanno dovuto amministrare le risorse finanziarie tenendo conto dei vincoli imposti da Bruxelles per evitare il default dell’Unione.
La scelta di servirsi di personalità di comprovata competenza e di accertata correttezza per dipanare la matassa della spesa sembra di per sé indice di debolezza strutturale dei poteri pubblici nell’affrontare il problema. Quella del «commissario» può essere una soluzione plausibile una tantum, ma non deve divenire la regola in una democrazia nella quale esistono (e dovrebbero funzionare) gli strumenti ordinari. La domanda d’obbligo diventa: quali sono le ragioni della cronica incapacità di intervenire in modo adeguato ed efficace nella distribuzione delle risorse pubbliche, al fine di ottenere dei significativi e strutturali risparmi? Al riguardo, un tentativo di risposta non può prescindere da due premesse. In Italia il rapporto tra spesa pubblica e Pil non si discosta da quello di Paesi con i quali è possibile un confronto.
Il nodo non è la quantità della spesa; le criticità riguardano la dislocazione delle risorse e l’efficacia del loro uso. Va, d’altro canto, considerato che le resistenze degli apparati pubblici alla riduzione delle risorse disponibili sono ovvie, derivando da un naturale «spirito di conservazione». Per superarlo occorrerebbe un «comando» politico molto rigoroso e, nel contempo, ben addentro nei meccanismi di formazione e gestione della spesa. Entrambi i fattori sembrano mancare all’appello. Ne deriva che le pressioni degli apparati si incrociano con l’incapacità dei governi di tenerle a bada o, peggio, con la volontà politica di utilizzare le risorse finanziarie per pure esigenze di consenso elettorale e senza alcun riguardo per la «tenuta» dei conti pubblici. La somma di tali incongruenze fa schizzare in alto la spesa senza che si registri un miglioramento nell’efficacia dell’azione pubblica. In soldoni. spreco di risorse senza benefici reali per la società nel suo complesso.
I margini di risparmio ci sono. Si tratta di andare a toccare duplicazioni di competenze (e, quindi, di uffici), oppure di selezionare le priorità in base ai bisogni effettivi e non a richieste di natura corporativa. Qui casca l’asino, poiché le scelte da fare sono impopolari e non aumentano il consenso. Quindi, si preferisce non farle.
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