Il caro energia e i troppi «no»

Chissà che l’irruzione della questione energetica nella campagna elettorale, sia stata utile per mettere meglio in fila le priorità. Certo, il Luna Park delle promesse di agosto (tasse basse, pensioni alte, alberi, dentiere) è come se avesse di colpo fermato le giostre, e la musica si fosse trasformata in un breve belato beffardo.

Ora, sono ripartiti rumori di fondo curiosamente omogenei: tutti a tagliare bollette, mettere tetti, progettare ristori, rateizzare. Ma tutti a chiedere di intervenire a Mario Draghi, quello che era stato cacciato.

Per fortuna che il suo ministro Roberto Cingolani ha già predisposto un piano di risparmi: qualche miliardo di kwt in meno sarà utile presto. La verità è che questa nuova tegola è in realtà vecchia come la povertà di materie prime del Paese più ricco di bellezze del mondo. Sarebbe ora di considerarlo nei programmi elettorali, anche a costo di renderli più faticosi da illustrare la sera. A ben guardare, la politica italiana dovrebbe essere intenta soprattutto a rimuovere le cause locali della sua incapacità ad affrontare grandi e ineludibili questioni globali. Ma non lo fa mai, dimenticandosi di essere in Europa.

Si veda l’immigrazione, un fatto strutturale, epocale, che riguarda i grandi cambiamenti demografici, con la sola Nigeria che a breve avrà più della popolazione di tutti i 27 insieme. Pur essendo i più esposti per ragioni geografiche, abbiamo approvato per distrazione gli accordi penalizzanti di Dublino e ci regoliamo tuttora con una legge di ordine pubblico, la Bossi-Fini. L’abbiamo considerata sempre l’occasione per dividerci tra buoni e cattivi. Una miniera di voti da coltivare, non per ragionare insieme in positivo, da europei che hanno bisogno di braccia e cervelli. Il tema ha ora perso credibilità solo perché il tempo ha consentito di vedere l’inutilità delle misure spettacolari immediate (lasciare a bagno gli immigrati come ha fatto il progressista governo Conte 1, ora l’impraticabile blocco navale), ma senza capacità di incidere sulla sostanza, che ha davanti ancora decenni.

Poi è arrivata la pandemia, altra questione mondiale, abbiamo reagito con coraggio civile ma siamo stati capaci, anche lì, di dar spazio, minimo ma serio, ai no vax, che hanno un ruolo rilevante persino in questa campagna elettorale. Per fortuna una straordinaria catena internazionale, ben poco sovranista, ha provveduto a procurare strumenti scientifici e di conoscenza per attenuarne gli effetti. Sul piano economico, senza Europa non sarebbe stato possibile neppure concepire un Recovery da 230 miliardi da aggiungere ad altri 220 miliardi di debiti interni già stanziati in 2-3 anni. La pandemia ha comunque fatto crescere ovunque l’inflazione, la tassa dei poveri, e nella distrazione complessiva, con gli Usa in fuga rovinosa dall’Afghanistan e l’Europa ancora piena di contraddizioni, è partita una guerra che ha chiaramente potenzialità mondiali. Chi mette sanzioni lo fa per non doverla andare a fare di persona. Con la guerra, siamo ormai alla mercé di un prezzo del gas formato da una bisca di Amsterdam, con numeri che non hanno riscontro con la realtà industriale. Meno male che abbiamo smesso in tempo di trastullarci con il no a una Tap che secondo il ministro del Sud dell’epoca non consentiva di sdraiarsi in spiaggia perché 100 metri più sotto passava un tubo di 30 cm di diametro. Ma costerebbe solo 5 euro, non oltre 350 come ad Amsterdam, il gas che le trivelle italiane dell’Adriatico potrebbero pompare, se politici in parte oggi pentiti, non le avessero fermate quando procuravano 20 dei 40 miliardi di gas che abbiamo importato dalla Russia, perché Putin era uno di cui fidarsi…

Giusto non rimestare il passato, ma almeno sotto elezioni sarebbe utile ricordare qualche responsabilità. Nessuno utilizza Greta Thunberg come testimonial di questa campagna elettorale e una ragione ci sarà. Il carbone è ripartito alla grande. Alla fine, soprattutto ciascuno scelga, ma i fatti degli ultimi anni dicono almeno che la soluzione non è il sovranismo, che è il contrario del patriottismo. Luigi Einaudi, che era un moderato nel linguaggio, lo definiva quasi un secolo fa un «idolo immondo».

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