L'Editoriale
Giovedì 26 Settembre 2019
Il diritto a darsi
la morte, una sconfitta
La sentenza era un po’ nell’aria, dopo che il Parlamento per un anno ha tergiversato senza affrontare la questione. Lo stesso avvocato generale dello Stato, Gabriella Palmieri, rappresentante del governo non aveva chiesto ulteriore tempo per permettere al Parlamento di affrontare finalmente la delicatissima materia del suicidio assistito. Solo la Chiesa, in particolare per voce del presidente della Cei Gualtiero Bassetti, aveva ribadito con forza che la materia poteva essere affrontata solo in sede parlamentare, tra i rappresentanti del popolo.
«Se invece interverrà la Consulta, il Parlamento avrà abdicato alla sua funzione legislativa e rinunciato a dibattere su una questione di assoluto rilievo», aveva ammonito Bassetti. E questo alla fine è accaduto. La Corte Costituzionale, dopo una lunghissima camera di consiglio, infatti ha deciso di decidere. E come prevedibile ha aperto una breccia nella direzione della possibilità di procedere con il suicidio assistito, vincolata a condizioni molto chiare e circoscritte. La Corte in questa sua scelta, per altro molto combattuta al suo interno, è stata facilitata dalla pronuncia del Comitato nazionale di bioetica che nel luglio scorso aveva distinto tra suicidio assistito ed eutanasia, sostenendo che depenalizzare il primo non significava legittimare la seconda: una pronuncia dalla quale avevano preso le distanze gli esponenti cattolici del Comitato.
Com’è noto la vicenda riguardava la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale, cioè se fosse reato aiutare ad andarsene una persona malata che non ritiene più sopportabile e dignitoso vivere. Già lo scorso anno i giudici avevano avvertito della necessità di rivedere quell’articolo che non distingueva tra aiuto al suicidio ed istigazione, chiedendo al legislatore di provvedere, e aveva dato tempo fino al 24 settembre. La Corte quindi con la sentenza di ieri si è mossa in coerenza con quell’avvertimento di un anno fa. Ha distinto tra aiuto e istigazione, subordinando la possibilità di ricorrere alla «morte a comando» al rispetto «delle modalità previste sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua». Inoltre ha ribadito la necessità che siano verificate «le condizioni richieste della modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del Comitato etico territoriale».
Insomma, nonostante l’indubbia apertura da parte della Corte permangono tanti «se». Non a caso già ieri, prima che uscisse la sentenza, l’Ordine dei medici aveva chiesto che non ricadesse sui medici la responsabilità del fine vita. Il presidente della Federazione degli Ordini dei medici, Filippo Anelli ha subito chiesto che ora il Parlamento stabilisca che la responsabilità di avviare una procedura di suicidio assistito sia delegata ad un pubblico ufficiale rappresentante dello Stato e non ad un camice bianco. Perché, come ha sottolineato la senatrice Paola Binetti, «i medici considerano la morte un rivale da battere non un alleato».
Insomma, ora il rischio è che la sentenza della Corte apra più questioni di quante non ne risolva. Che aumenti la confusione su una materia straordinariamente delicata come questa. «L’approvazione del suicidio assistito nel nostro Paese aprirebbe un’autentica voragine dal punto di vista legislativo», aveva ammonito il cardinal Bassetti. Ora quello scenario temuto si è realizzato. È stato legittimato un diritto a darsi la morte. In tanti festeggiano come si trattasse di una conquista. In realtà è una sconfitta causata dal prevalere di una logica utilitaristica anche in un terreno dalla quale invece dovrebbe essere tenuta fuori: il terreno della vita.
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