Il generale e la guerra interna alla Lega

ITALIA. Pensandoci bene, alla fine la cosa più corretta sulle tensioni in casa Lega, conseguenza della candidatura di Roberto Vannacci alle Europee, l’ha detta il generale medesimo: «Problemi loro».

A maggior ragione dopo essere stato tenacemente voluto in lista da Matteo Salvini che nella tornata elettorale di giugno si gioca parecchio del proprio futuro politico. Se in primissima battuta la sfida del leader leghista sembrava tutta interna al centrodestra, una sorta di tentativo di riequilibrare i rapporti con Fratelli d’Italia, gli eventi delle ultime settimane hanno confermato che a) la leadership di Giorgia Meloni è saldissima e non in discussione, b) Forza Italia ha elaborato il lutto per la scomparsa di Silvio Berlusconi e recuperato consenso e c) la Lega appare in caduta. Se non libera quanto meno preoccupante. Vero che le Europee vanno in tandem con quelle amministrative dove il (fu) Carroccio potrebbe far valer il suo maggiore radicamento territoriale, ma lo è pure il fatto che una parte non secondaria dell’elettorato (di ambo le coalizioni) è abbastanza volubile: in sostanza segue chi vince, e in questo momento comanda la Meloni. Punto.

Salvini punta su Vannacci e la fascinazione dell’«uomo forte» per recuperare consenso, ma i primi effetti sono tutti interni alla Lega, dove già nelle scorse settimane si è assistito a una serie di rinunce alla (ri)candidatura sulla scorta di un calcolo sì politico ma anche meramente economico. Per essere concreti, la corsa a Strasburgo è parecchio dispendiosa e il combinato disposto tra il consenso del partito in evidente calo e un posto comunque riservato a Vannacci in ogni Circoscrizione a prescindere riduce ulteriormente le già non elevate possibilità di venire eletti. Da qui la ragione di parecchi passi indietro di europarlamentari o aspiranti tali: diverso è il discorso di chi invece ha accettato comunque la sfida sperando poi che la fedeltà al capo venga premiata in altro modo. Ammesso e non concesso che, una volta chiusa la tornata, gli equilibri interni rimangano i medesimi.

Vista da fuori, in questo momento la Lega pare una polveriera in attesa che qualcuno accenda il cerino, e potrebbe succedere al momento di tirare le somme dopo la tornata di giugno e vedere se l’azzardo di Salvini sarà risultato vincente. Per il momento ha di sicuro scontentato molte persone, a cominciare dai militanti di antica data che non hanno mai visto di buon occhio candidature calate dall’alto o provenienti da altri partiti. In tal senso è emblematica la sintesi di quel Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli, da molti indicato come possibile successore di Salvini forte del suo ruolo di mediatore tra lombardi e veneti, da sempre le due anime dominanti (e contrastanti) della Lega: «Sono molto contento dei candidati proposti in Friuli Venezia Giulia, candidature di valore ed espressione del mio territorio. Io lavorerò per questi tre candidati, visto che al massimo si possono esprimere tre preferenze».

Non è un siluro alla segreteria, ma poco ci manca. Vero che diplomaticamente Fedriga se la cava augurandosi che la candidatura di Vannacci possa aiutare la Lega a conseguire un buon risultato, ma è di tutta evidenza che la stessa viene percepita come un’imposizione dall’alto. Non a caso è applaudita soprattutto (quasi esclusivamente) dai pretoriani di Salvini, vecchi e nuovi: il resto del partito sembra voler eludere il tema.

La verità è che il leader leghista su Vannacci gioca una sorta di «all in», dentro e fuori il centrodestra e se possibile spostandosi ancora più a destra: alza la posta e in un certo senso anche i toni, cavalcando per interposta persona temi cari a un certo elettorato leghista e più generalmente populista, dall’integrazione Ue all’immigrazione passando per il 25 Aprile e la sicurezza più volte toccati dal generale, con l’obiettivo di tornare a intercettare quel tipo di malumore e relativo consenso. Dimenticando però, come spesso gli capita, una cosa: al governo c’è lui.

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