Il lento declino
del sistema Italia

Lo stipendio medio italiano è sceso nel 2020 del 2,89%. I salari nell’Area Ocse dal 1990 al 2020 sono aumentati del +33,09%. Praticamente in trent’anni le retribuzioni in Italia sono rimaste al palo. Il Paese è come se si fosse fermato: e quindi è regredito. La verità è che gli stipendi non si possono discostare dalla produttività, ovvero dalla capacità delle attività produttive di creare plus valore. Ciò che rende appetibile un’economia agli investitori non è solo il costo del lavoro. Non a caso si parla di sistema Paese perché comprende settori che sembrano lontani dall’attività lavorativa in sé e per sé. La burocrazia per esempio è un fattore dirimente. Se un’azienda per svolgere tutte le attività amministrative legate al normale disbrigo degli obblighi di legge impiega mesi se non anni finisce per sentirsi ostaggio di un apparato che non è il suo e che non rispecchia le regole di mercato della velocità ed efficienza. Se la giustizia impiega anni per dirimere controversie legali legate allo svolgimento dell’ attività produttiva o dei servizi gli investitori appena possono se ne vanno.

Il motivo è semplice, tutti questi ritardi per le imprese sono costi che si ripercuotono sul prodotto finale e lo rendono meno competitivo. Lo stesso dicasi per l’alto carico fiscale o per le infrastrutture vecchie e non performanti. Il crollo del ponte Morandi a Genova è diventato il simbolo di questo declino. Poi giocano un ruolo gli investimenti in tecnologia e ricerca che permettono innovazione e quindi riduzione di costi. Può essere che alcuni di questi fattori siano in ritardo e altri invece all’altezza delle sfide dei mercati internazionali.

Quello che è successo all’ Italia è un lento impercettibile degrado sino ad arrivare al crollo della cosiddetta produttività totale dei fattori. Ed è questo che ha portato negli ultimi tempi alle delocalizzazioni di presidi industriali di rilevanza nazionale. A partire dalla Embraco Compressori di Riva di Chieri in Piemonte trasferita in Slovacchia sino a Gkn di Campi Bisenzio passando per Whirlpool di Napoli. Tutte aziende sane ed efficienti chiuse e trasferite all’estero. Si suole dire che i motivi siano da ricondurre ai salari alti rispetto alle retribuzioni dei Paesi dell’Est Europa. In verità, se ascoltiamo Roberto Benaglia, a capo del sindacato metalmeccanico della Fim Cisl, parrebbe di no. Nell’ampia rassegna dedicata alle delocalizzazioni si dice espressamente: «…Diciamo che i costi della manodopera italiana non sono così proibitivi da far scappare le imprese».

Le imprese che vanno via lo fanno per ottimizzare i costi in un contesto che non le penalizza come quello italiano. Si cerca la competitività e la si ottiene solo programmando il futuro in Paesi che offrano opportunità di riduzione dei costi.

Finché il sistema Paese non si modernizza, le imprese in Italia sono costrette a tagliare là dove è più facile ovvero sulle retribuzioni e sulla modalità di lavoro. Non potendo ottimizzare i profitti per la scarsa competitività dei fattori si finisce anche per tagliare negli investimenti in innovazione e nella ricerca. Questo spiega perché al di là delle ventimila imprese che si sono internazionalizzate e sono all’avanguardia il resto fa fatica a far quadrare i conti. È necessario quindi che lo Stato si faccia carico attraverso l’attività di governo di supplire là dove le leggi di mercato faticano.

Un caso classico è la transizione energetica. Entro il 2035 è previsto il passaggio all’auto elettrica. Per l’Italia vuol dire la perdita di 70mila posti di lavoro. Con la costruzione di batterie si prevede di dare occupazione a 60mila addetti. Mai come ora vi è bisogno di avviare un percorso che riporti il Paese alla competitività perduta e quindi a salari dignitosi.

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