Il Parlamento
rivitalizzato

All’indomani della rielezione del presidente Mattarella, la scena dei partiti è quella del giorno dopo lo tsunami: coalizioni lacerate, leader azzoppati. Nulla è cambiato, nel senso che viene ripristinato il binomio Mattarella-Draghi, ma molto sta cambiando. Se il Capo dello Stato preserva l’equilibrio istituzionale e di governo, il sistema delle forze politiche, giunte alla soglia della Terza Repubblica e costrette a riaffidarsi a un’eccellente personalità cresciuta nella Prima Repubblica, andrà rivisto, possibilmente con qualche atto di contrizione.

Crisi di sistema? La miglior scelta possibile è parsa attenuata da un metodo di non analoga nobiltà: richiamare in servizio Mattarella all’ottavo scrutinio per mancanza di alternative e per paura di elezioni anticipate, quindi per istinto di sopravvivenza, replica l’impotenza di una partitocrazia senza partiti veri e propri. Si afferma in ogni caso il partito della razionalità e della stabilità contro il sovranismo-populismo, per quanto già ridimensionato, nel nostro caso rappresentato da Salvini e Conte in una sorta di riedizione della stagione gialloverde: fra chi inseguiva l’interesse generale e chi coltivava il proprio orticello, il mondo chiuso, il «mondo dei mediocri» come li ha chiamati il politologo Sergio Fabbrini sul «Sole 24 Ore» di ieri.

Il centrodestra torna a essere una coalizione senza leader e divisa: la trazione salviniana rivela di non incidere sui passaggi istituzionali che contano e di non essere in grado di costruire. È Giorgia Meloni a dire che questa metà campo va rifondata. Nella parte progressista l’idea del «campo largo» di Letta è tutta da verificare. Il segretario dem ha giocato di rimessa, lasciando a Salvini l’iniziativa in modo che si facesse male da solo. Se però l’elezione per il Colle doveva essere la prova generale di un’alleanza con i grillini, i conti non tornano: Conte ha sbagliato, è stato tentato dall’opzione salviniana e paga dazio al suo competitore interno, Di Maio. Pd e M5S sono così più lontani a dispetto dell’impianto voluto da Letta. Per ora abbiamo due risultati. Il centrodestra senza la mediazione di Berlusconi vedrà volare gli stracci fra Salvini e Meloni in un conflitto all’ultimo voto. Nella Lega qualche chiarimento s’impone (vedi il caso Giorgetti), anche se nel partito la resa dei conti è spesso annunciata e mai praticata (o portata in superficie). Nel centrosinistra Conte e Di Maio hanno recitato la commedia dei separati in casa a vantaggio del secondo, ma il fatto stesso che Letta abbia aperto alla riforma della legge elettorale in chiave proporzionale significa che il Pd non è più sicuro dell’alleanza con i Cinquestelle. C’è altro, però: la ritrovata vitalità del Parlamento, in questi anni ritenuto ai margini. La scelta di Mattarella è nata dal basso e questa ribellione parlamentare ha evidenziato la crisi verticale dei partiti: la comunicazione dall’alto verso il basso non risponde più alla gerarchia.

Aspetto centrale: non è un caso se a salire al Colle per chiedere al presidente di restare non sono stati i segretari di partito, ma i capigruppo di Camera e Senato della maggioranza. Quasi a segnalare la distanza fra segreterie e parlamentari. Semplificando: hanno vinto i peones, non i leader. E qui arriviamo al rapporto scivoloso fra tecnici e politici, tema sul quale lo stesso Draghi potrebbe fare una riflessione aggiuntiva. Casini, pur parte in causa, ha ragione quando dice che la presenza di due non politici, al Quirinale e a palazzo Chigi, avrebbe alterato la fisiologia normale di una democrazia che funziona. Se la politica è in crisi per colpa sua, non s’è però mai visto in nessuna parte del mondo democratico cambiare le cose con strumenti diversi dalla politica, ossia dal consenso elettorale. I politici, evidentemente, non possono coltivare l’autosufficienza, ma i tecnici non possono pensare di sostituire la politica. Quindi, a parte tutto il resto, è buona cosa che il Parlamento, recuperata una propria centralità e dopo aver affidato a un tecnico la guida del governo, abbia scelto di nuovo per il Colle una personalità espressione della politica. Altra questione: il futuro del governo. Draghi, scampata l’imboscata del draghicidio e con Mattarella al Quirinale, esce rafforzato: in teoria e almeno a breve termine, il tempo che i vinti curino le ferite. La forza di Draghi, prima di questo appuntamento elettorale, s’era indebolita e l’abbiamo visto con la legge di bilancio dove il premier è andato in minoranza. In agenda non c’è solo la messa a terra del Pnrr, ma in prospettiva il cambio della legge elettorale, snodo ad alto potenziale esplosivo: è su questo terreno che si decidono i rapporti di forza all’interno delle coalizioni e fra gli avversari. Fin qui si può dire che Draghi non s’indebolisce, perché chi intendeva remare contro non s’è affatto rafforzato e potrebbe destinare le proprie energie a miglior causa.

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