Il premier eletto, il no di Segre va ascoltato

ITALIA. I senatori a vita non hanno solo una funzione rappresentativa.

Dunque non ha senso criticare la dura presa di posizione da parte di Liliana Segre sulla proposta di riforma costituzionale sul «premierato elettivo» che porta la firma dell’ex presidente del Senato Elisabetta Casellati. «Non voglio tacere», premette la senatrice a vita che fu deportata in vari campi di concentramento, tra cui Auschwitz, dove perse tutti i suoi familiari e che porta avanti, a cominciare dai suoi interventi nelle scuole, la memoria della Shoah. Andrebbe invece ascoltata maggiormente perché dotata di maggiore autorevolezza. Non ha torto la Segre nel dire che le riforme costituzionali sono sempre molto delicate e che forse in Italia le si tratta un po’ troppo spesso alla stregua di leggi ordinarie. Nel cambiare la nostra Carta occorrerebbero «non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione».

E invece pare che in questo caso tutto si riduca a un concetto elementare: se il premier è eletto dal popolo deve restare fino alla fine della legislatura, altrimenti decade la legislatura. Un principio non popolare bensì populista. Che assegna tutto il potere alla maggioranza di governo, impossibilitata a creare altre maggioranze e libera di mandare a casa il premier. Non si considera che non è il popolo, tantomeno la piazza, a rappresentare la democrazia, ma quell’insieme di istituzioni, organi rappresentativi, corpi intermedi, associazioni, partiti, organismi giudiziari che compongono un complesso ma solido equilibrio finalizzato al bene comune e disegnato nella Costituzione. Altrimenti non è democrazia, bensì - nell’ipotesi più ottimista - «democratura», una dittatura, o un potere autocratico, mascherato da democrazia. Gli esempi nel mondo non mancano, cominciando da Putin. Insomma, come dice Liliana Segre «non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan: scegliete voi il capo del governo. Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate». La riforma Casellati scardina pericolosamente questo equilibrio, a cominciare dai poteri di garanzia del Capo dello Stato, arbitro dei tre poteri separati (poteri detti «a fisarmonica» perché variabili a seconda delle circostanze), soprattutto del primo (la politica) e del terzo (la magistratura, in quanto capo del Csm).

Se gli si toglie il potere di sciogliere le Camere il potere viene tutto sbilanciato sul premier, forzando gli equilibri che ci hanno governato da 76 anni. Con una metafora efficace la Segre prevede che il premier guarderebbe «dall’alto in basso» un presidente della Repubblica declassato a taglia nastri, che non potrebbe neanche intervenire in Parlamento quando il sistema politico-partitico va in crisi oppure quando gli eventi esterni rendono impossibile alle maggioranze politiche governare i processi decisionali. Il Capo dello Stato perderebbe, tra le altre cose, anche la sua enorme autorevolezza e la sua moral suasion. Non ha torto la Segre nel dire che con la pretesa riforma si creerebbero anche due rischi opposti, una stabilità parlamentare di facciata e una lesione della rappresentatività del Parlamento, al solo servizio del governo eletto, impossibilitato a creare un qualunque altro tipo di maggioranza. Più populista di così c’è solo l’autocrazia, per non parlare degli «artifici maggioritari» che premiano il partito più votato, al di là «di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale». Una concentrazione del potere inaccettabile. Ma se la riforma passasse non ci potrebbe essere più una Segre a lanciare l’allarme, poiché la riforma prevede anche l’abolizione dei senatori a vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA