Il razzismo non è solo in quel coro

ITALIA. Siamo di nuovo qua, coi siti dei giornali inondati di indignazione contro il razzismo negli stadi, dopo il coro, che poi non è nemmeno un coro, contro il portiere del Milan Mike Maignan. Ed è tutto un fiorire di proposte.

Chi dice che van chiusi gli stadi per 6 mesi, chi propone cittadinanze onorarie per il portiere colpito dalla beceraggine di chi pensa sia giusto rivolgergli il verso della scimmia. Chi chiede sconfitte a tavolino, chi pontifica che il portiere non sarebbe dovuto rientrare in campo, chi aggiunge che non si sarebbe dovuto piegare, e dunque la cosa giusta era, al contrario, rimanere in campo. Ovviamente, non c’è una risposta.

Ma prima di tutto non è una soluzione - anzi, è forse vero il contrario - quella di alzare i toni contro «il razzismo negli stadi». Perché è una formula astratta, e probabilmente semplificatoria. È quasi utile, a chi nega che la nostra società sia ancora profondamente e - temiamo - irrimediabilmente razzista, indicare negli stadi e in una parte di coloro che li frequentano la fonte esclusiva del problema. È un’argomentazione vecchia, che descrive tifoserie zeppe di trogloditi che quando vedono nero perdono il lume della ragione, ammesso e non concesso che, in quanto trogloditi, ne siano mai stati dotati. Nessuno - sia chiarissimo - nega che gli stadi siano un palcoscenico comodo per fare branco, che siano una valvola di sfogo dove voce si somma a voce e diventa coro, e dunque fa più rumore.

Ma chi ha il compito di osservare ciò che ci circonda non può limitarsi all’indignazione quando, con una periodicità piuttosto sostenuta e prevedibile, scoppia il caso del giocatore nero insolentito, insultato, assimilato a un animale (peraltro intelligentissimo come la scimmia). Non basta «usare» questi casi per timbrare il cartellino dello sdegno.

Occorrerebbe farlo, per esempio, davanti agli immigrati che, benché regolari e dotati di busta paga, non riescono a trovare case in affitto nelle nostre città.
Occorrerebbe farlo quando le nostre strade si trasformano in guerre perenni, e basta un ritardo al verde o una precedenza non data per far scattare il troglodita che è in tanti, troppi.
Occorrerebbe farlo quando si sente dire «è nero, ma è bravo», a proposito di un medico, di un infermiere, di un cuoco, di un idraulico. Quando l’origine straniera o il diverso colore della pelle di chi ci sta accanto fanno scattare in noi non solo la naturale diffidenza verso ciò che conosciamo meno, ma la presa di distanza, o pure qualcosa di peggio. E quando in nome di una ormai inutile e ammuffitissima goliardia, fingiamo risate complici davanti a battutacce insopportabili. Qualcosa cambierà quando al posto delle risate complici sapremo dire che battutacce a sfondo razzista non si possono più sentire, non si possono più accettare, chiunque ne sia l’autore. Si offenderà? Pazienza: quelli saranno i nostri «two cents» devoluti al progredire della civile convivenza.

Se dunque osserviamo ciò che è innegabile, capiamo bene che è sacrosanto indignarsi per i trogloditi di Udine che hanno insolentito Maignan, ma non può bastare. Perché il problema è lì, certo, ma è solo uno dei volti del fenomeno. Gli stadi ci offrono a buon mercato una finestra su quel che siamo, o siamo diventati, o stiamo diventando. Sono un termometro che segna la febbre, non sono la malattia. Sono l’amplificatore saltuario di una voce che però parla ogni giorno, anche se la si sente meno, anche se fa meno titolo perché magari colpisce una donna delle pulizie che non sa dove andare a dormire, e non il portiere che conoscono tutti e ha milioni di followers. O magari colpisce quelle centinaia di mani senza nome protese da una barca per trovare salvezza, e che sono finite in fondo al mare. E davanti alle quali ormai «i siti» se la cavano con poche righe posizionate al decimo scroll, come la più grigia delle notizie di routine che non clicca più nessuno.

Siamo un po’ tutti dentro quel coro contro Maignan, se facciamo finta di non vedere che quel coro è l’effetto di quel che siamo. E siamo tutti dentro quel coro se lo usiamo per autoassolverci, pensando che il problema siano solo loro, quei dieci o cento o mille trogloditi che l’hanno vomitato su un campo di calcio.

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