La Cina scala l’Onu
Per i propri interessi

Alla fine ce l’ha fatta. Ieri pomeriggio la Cina s’è presa la Fao. Al primo scrutinio Qu Dongyu, numero due della politica agricola di Pechino, ha vinto la sfida ed è salito al vertice dell’organizzazione più strategica delle Nazioni Unite. Il compito della Fao è lottare contro la fame nel mondo, ma questa è una narrazione molto romantica per un’agenzia che in realtà ha un ruolo chiave nell’orientare il commercio mondiale del cibo e apparecchiare le politiche sulla sovranità alimentare a livello globale.

Per l’assalto i voti dei Paesi poveri sono stati decisivi. La politica del portafoglio di Pechino ha pagato. Il settore alimentare è cruciale oggi nei disegni delle più grandi commodities finanziarie. Il commercio delle materie prime e il ruolo dei grandi fondi di investimento nella determinazione delle politiche dei prezzi investe il settore agroalimentare a livelli sempre più crescente dalla crisi dei mutui del 2008. E il cibo è diventato negli ultimi dieci anni il vero terreno di scontro dei capitali speculativi.

La Cina non è mai stata fuori dalla partita con la sua enorme disponibilità di liquidità e con il suo grande mercato interno che può spostare la direzione dei traffici, cibo compreso.

Oggi la filiera alimentare mondiale occupa un miliardo di persone, un terzo della forza lavoro globale. I padroni del cibo sono dieci sorelle, marchi che hanno bisogno di denaro e si muovono sui mercati finanziari globali con scaltrezza e senza badare ai diritti umani. Insomma chi meglio di Pechino per garantire posizioni e guadagni stratosferici in un settore dove agiscono con astuzia e malizia multinazionali e governi e dove al contempo tutto può essere dissimulato con i buoni sentimenti della lotta alla fame? Tra i candidati fino a qualche settimana fa c’era anche un africano, il camerunese Medi Moungui, e l’indiano Ramesch Chand, ma entrambi hanno abbandonato e, forse, nella circostanza dell’africano non è stato un caso che Pechino abbia, con una donazione sicuramente liberale, ridotto il debito estero di Yaoundé pochi giorni prima dell’elezione.

Così Pechino a 30 anni dalla vergogna di Tienanmen incassa una posizione strategica e impone i suoi valori nel bel mezzo di una guerra commerciale con gli Usa e nello sviluppo di quella rete globale di commerci che si chiama Via della Seta. Pechino ha un metodo: prima compera merci come in un supermercato. Poi si compra il supermercato. Diritti umani, rispetto delle filiere nazionali, appoggio ai piccoli produttori, conservazione dell’ambiente e della biodiversità, scrupolo nell’uso di suolo, tutto passa in secondo piano nelle politiche del portafoglio cinese. L’Africa ne è esempio perfetto con le politiche di landgrabbing, avendo il continente l’80 per cento della superficie coltivabile ancora disponibile. In Africa la Cina ha inviato caschi blu nelle missioni Onu. Ora ha scalato il vertice della Fao, che gestisce quasi tre miliardi di dollari all’anno, un conto non da poco per determinare geopolitiche agricole a suo vantaggio sullo sfondo della lotta alla fame, che oggi colpisce quasi 800 milioni di persone con previsioni in aumento a un miliardo per il 2050.

Intorno gli interessi sono enormi e vanno dagli Ogm, capitolo cruciale della sicurezza alimentare, alle colture intensive, che consumano suolo e alberi, decisive nei cambiamenti climatici, spesso con interessi contrapposti tra governi e padroni del cibo. Mettere le mani sull’Onu non è cosa di poco conto per attrarre più risorse private nelle politiche del cibo. Serve, per lo meno, a fiaccare ogni ragionamento sulla sostenibilità, oggi il principale ostacolo all’ingordigia dell’economia che uccide.

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