La dignità negata del lavoro invisibile

ATTUALITÀ. Un giro d’affari di lavoro sommerso di un miliardo e mezzo, come quello che è stato rilevato nella provincia di Bergamo, è un dato inquietante, ma non tutti ne percepiscono la gravità.

Salari equi, parità di trattamento e tutele in materia di salute e sicurezza sono solo alcuni dei fattori che, a proposito di questo fenomeno, non trovano piena applicazione e che non assicurano un lavoro dignitoso, in quell’accezione di decent work di cui l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) si fa promotrice sin dal 1999. Spesso tendiamo a considerare il lavoro nero una sorta di peccato veniale, a meno che non si tratti di mestieri particolarmente servili o addirittura schiavistici, come i braccianti agricoli delle campagne sfruttati dal caporalato. In realtà esiste anche una «zona grigia» del lavoro nero che ormai si fa strada anche nei mercati dell’Occidente sviluppato (nei Paesi in via di sviluppo è quasi la regola), magari connessi in un sistema ibrido ad attività che rispettano tutti i crismi della legalità. Ad esempio un’impresa «regolare» che subaffitta un appalto a una cooperativa «irregolare».

Secondo l’Oil, il lavoro sommerso riguarda metà dell’economia mondiale e costituisce una sfida importante per i diritti dei lavoratori, soprattutto per i principi fondamentali, per la protezione sociale, per le condizioni di sostenibilità e per la crescita economica. Il lavoro dignitoso, infatti, è «un motore per lo sviluppo sostenibile», perché la promozione di un ambiente di lavoro sano, sicuro e meno precario garantisce una stabile crescita economica nel lungo periodo.

Non possiamo considerarlo solo una sorta di «ammortizzatore sociale selvaggio», come nelle storie che raccontiamo in queste pagine. Ovviamente la priorità è il mantenimento di un reddito e dunque anche fare la badante di notte, il lavapiatti in un ristorante o altri lavori domestici è sempre meglio che rimanere inoccupati per sbarcare il lunario. Ma non pensiamo mai alle possibili conseguenze di questi «mestieri invisibili», alla loro precarietà, alla mancanza di protezione, al fatto di essere totalmente in balia del proprio datore di lavoro. La badante in nero può essere mandata via dall’oggi al domani; se la colf si fa male cadendo dalla scala nessuno è tenuto a pagarle un indennizzo o le spese sostenute per riprendersi dall’infortunio, quando invecchierà nessuno le garantirà una pensione; il bracciante agricolo può vedersi ridotta la paga già misera senza poter dire nulla non avendo un sindacato che lo difende. Se, nei casi estremi, è un garzone di bottega minorenne, perderà il diritto allo studio, ovvero a un futuro quasi certamente migliore. Dal lavoro nero allo sfruttamento, insomma, il confine è molto labile.

Prendiamo la logistica. Favorita dalla rivoluzione digitale degli ultimi anni, l’espansione delle imprese di questo settore, nei comparti del corrierato, dei trasporti a lunga percorrenza e del magazzino hanno determinato in molti casi lo scivolamento del lavoro irregolare verso la schiavitù. Questo almeno, in sintesi, quanto risulta dalle indagini della Commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro in Italia da poco pubblicate. In origine era il «caporale» a fornire manodopera flessibile e a basso costo; a poco a poco gli si sono affiancate strutture complesse, forme sofisticate e, seppure solo apparentemente, legali, come agenzie di servizi, appalti, subappalti, lavoro in somministrazione, ma anche false cooperative e cooperative senza terra.

Un complesso reticolato di società in cui la figura del datore di lavoro diviene sempre più evanescente, il «caporale» è spesso sostituito da un software cui viene attribuito il potere di dirigere, controllare e sanzionare i prestatori di lavoro. Se prima era il caporale, oggi è l’algoritmo a schiavizzare il lavoratore.

Vi sono poi le conseguenze sociali, perché il datore di lavoro non paga tasse e contributi e in questo modo spesso entrambi (servo e padrone) usufruiscono di molti vantaggi fiscali e di benefits, dichiarando un basso reddito. La crisi economica e la pandemia stanno facendo fare più di un passo indietro alle conquiste secolari del Welfare, il modello europeo di protezione sociale che il mondo ci invidia. Sta a noi fare di tutto perché questo modello, basato sul diritto del lavoro e sulla dialettica fisiologica tra le parti sociali, non sparisca del tutto come in tante altre zone del Pianeta.

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