La manovra al voto finale
ma quanti ostacoli

Oggi la Camera approverà con il voto di fiducia la manovra economica 2020 che così diventerà legge in tempo entro la scadenza obbligatoria del 31 dicembre. L’assemblea dei deputati però non ha avuto alcuna possibilità di modificare il testo trasmesso dal Senato: peraltro anche i senatori hanno approvato il disegno di legge del governo mediante il voto di fiducia. La «blindatura» della manovra è dovuta ufficialmente alla necessità di rispettare i tempi ormai ristretti: la verità è che ben 45 giorni sono stati consumati dagli infiniti contrasti tra i partiti della maggioranza che hanno cominciato a demolire lo schema uscito dal Consiglio dei ministri un minuto dopo averlo votato: per questo si è arrivati a Natale col fiato corto.

Risultato, per la prima volta nella storia repubblicana ad una delle due Camere – oltretutto alla più «politica» - è stato reso impossibile modificare la legge più qualificante dell’anno. Non è un bel primato, anche se la forma costituzionale e regolamentare della procedura legislativa è stata rispettata. Le opposizioni naturalmente protestano, minacciano (improbabili) ricorsi alla Corte Costituzionale e ne fanno un ulteriore motivo per criticare il governo e la sua fragile e contraddittoria maggioranza. Che non ha certo terminato di affrontare grane anche di una certa entità. A cominciare dalle concessioni autostradali presenti nel decreto cosiddetto «Milleproroghe».

La battaglia dei grillini contro la Società Autostrade dei Benetton, avviata dopo la tragedia del ponte Morandi, è arrivata infatti ad un punto di svolta: nero su bianco è scritto in un testo legislativo che, in caso di revoca della concessione o di risoluzione del contratto, la gestione dell’arteria passa automaticamente all’Anas, cioè allo Stato. I concessionari, riuniti nella loro associazione Aiscat, sono immediatamente partiti all’attacco minacciando ricorsi e cause milionarie contro la variazione delle regole di contratti in essere che danneggiano società quotate in Borsa, e hanno trovato ascolto in Renzi che si rifiuta di votare la norma quando si tratterà di convertire in legge il decreto. Il Pd pencola più a favore delle tesi grilline ma i voti renziani al Senato restano determinanti. E così oggi ci dovrà essere un altro vertice per sbloccare la situazione.

C’è da aggiungere il nulla di fatto sul piano per l’innovazione digitale presentato dalla ministra Paola Pisano (M5S): si è scoperto che è stato scritto a quattro mani tra la ministra grillina e Casaleggio junior, capo del suo movimento nonché imprenditore, appunto, digitale. Il Pd ha eccepito il conflitto di interessi: Franceschini ha fermato le macchine e anche qui occorrerà trovare una soluzione alternativa.

L’unico provvedimento approvato senza la magica formula del «salvo intese» (che vuol dire che non c’è accordo) è la riforma delle intercettazioni che fu presentata a suo tempo dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando (Pd). Con alcune modifiche il testo è arrivato alla stazione d’arrivo in contemporanea con l’entrata in vigore della nuova prescrizione voluta dai grillini e dal ministro Bonafede. Anche in questo caso si tratterà di superare lo scoglio dei renziani che accusano il Pd di aver ceduto alle ragioni giustizialiste dei grillini che porteranno – accusano – a processi lunghi tutta una vita. A meno che il Pd riesca ad ottenere che il M5S rispetti la promessa di mettere mano in gennaio alla «ragionevole durata dei processi». Ma è tutto da vedere che non si tratti di una promessa da marinaio, fatta solo per far passare la prescrizione secondo l’ispirazione di Piercamillo Davigo, la toga più inflessibile che, dicono i maligni, è il vero padrone del ministero di via Arenula. Di lui è celebre una frase: «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca».

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