La tragedia di Ischia e la lezione del Mose

Ambiente.Le condanne sulle cause della tragedia di Ischia sono tardive, pronte ad essere dimenticate come sempre, una volta passata l’emozione. Per trarre qualche lezione più duratura, può aiutare una notizia invece positiva, e cioè quella del funzionamento del Mose a Venezia.

Perché alla fine, dopo troppi anni e troppi soldi spesi, ma facendo le cose, la città sembra salva. Ci sono denominatori comuni nelle due vicende: cattivo ambientalismo, fuga dalle responsabilità politiche, burocrazia agnostica, infiltrazioni malavitose, tangenti. Il Mose è stato citato per anni solo per quest’ultimo aspetto, come se fosse la ragione per cui era meglio non farlo e lasciare Venezia al suo destino. È invece il conservatorismo ottuso e l’irresponsabilità ciò che fa più danni. Certo è che tra i tanti No (Tav, Triv, Tap, Termovalorizzatori) che costellano gli ultimi decenni, da oggi va depennato il No Mose, visto che per la prima volta nella sua storia millenaria, Venezia ha evitato lo sfregio dell’allagamento. È ancora fresco il ricordo del novembre 2019 (un morto e 150 milioni di danni) e indimenticabile la tremenda devastazione del 1996.

Il 12 novembre scorso tutti all’asciutto, nonostante i due metri misurati a Malamocco, dove una fotografia da incorniciare mostra a sinistra i flutti spaventosi che minacciano la città e a destra la placidità della laguna, piatta e tranquilla. In mezzo, la striscia gialla del famigerato Mose («non funziona», «è superato», «è solo una mangiatoia»), un chilometro e mezzo di dighe mobili che stanno sott’acqua quando non serve, ma bloccano tutto appena c’è pericolo. E non dimentichiamo un’altra opera semplice e salvifica: la barriera di vetro che è stata installata a protezione della Basilica di San Marco. Anche lì bastano 97 centimetri di acqua alta, senza Mose, per invadere pavimenti e mosaici, più volte oggetto di corrosione salina e poi di infiniti restauri. Ora c’è un parapetto ultratrasparente, più un sistema di valvole e pompe antinfiltrazione. Altro uovo di Colombo arrivato in ritardo dopo lungaggini burocratiche e giudiziarie.

Sembrano argomenti diversi, ma hanno in comune due resistenze convergenti nell’esito paralizzante: i cantori di un ambientalismo astratto e la furia di chi si oppone in piazza alla demolizione degli abusi, a Ischia con 27mila richieste di sanatoria («condoni», dice la legge Conte-Salvini del 2019) su 60mila abitanti. In realtà, non ci si può rassegnare al fatto che in Italia si spenda inesorabilmente un euro in prevenzione e 4 volte tanto in emergenze da affrontare a posteriori. Un rapporto da invertire, lavorando fuori dai riflettori quando è il momento non dei voti da prendere ma delle cose da fare (prossima occasione: i soldi del Pnrr). L’esempio ormai ricorrente è quello del ponte Morandi: un miracolo di rapidità e di efficienza (mentre la «Gronda» che scavalca la città è sempre ferma), più veloce di qualsiasi malversazione.

Già, perché il nemico delle tangenti non sono mille procedure aggiuntive che si sovrappongono, fermando la penna che deve firmare anche gli atti dovuti, ma è proprio la velocità decisionale. Nelle pieghe delle infinite verifiche, c’è troppo spazio per forzature e illegalità. Vero che esiste anche una retorica della decisionalità che può essere altrettanto pericolosa, come è avvenuto proprio a Venezia quando un Consorzio di imprese senza gara monopolizzò per anni i lavori senza controlli.

Ma ancora una volta il problema è allora dello Stato, che fa cose che non dovrebbe fare e non fa invece il suo vero mestiere di regolatore imparziale. È qui che si deve agire: far rispettare le leggi e le sentenze (6.000 demolizioni non eseguite a Ischia) e assumersi le responsabilità. È la dura legge del fare anziché la comodità del non fare.

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